APPROFONDIMENTI: Fedez, Yale e l’ignoranza felice al potere
La ricognizione, nel linguaggio militare, è un’attività volta ad accertare le reali condizioni del nemico. Sfogliare i giornali, ascoltare le notizie televisive e utilizzare la rete a scopo informativo è diventata una pericolosa ricognizione quotidiana. Richiede ardimento, fortezza d’animo, sprezzo del pericolo e qualche volta del ridicolo. La speranza che accompagna l’autore di queste note nella Via Crucis di ogni giorno è quella di sbagliare tutto, di essere l’ultimo dei Mohicani. E’ probabile, lo speriamo con tutta l’anima, che la nostra visione del mondo sia un semplice residuo, il pigro attardarsi di una mente non adattiva. Una nostra parente, che litigava assai spesso con il marito, terminava le discussioni mettendo una mano sul petto e dichiarando teatralmente “lo so che il torto è mio”.
In questi giorni, non sono mancate le ricognizioni in cui lo sconcerto e la malinconia hanno lasciato il passo all’ultima dea, la speranza di avere torto marcio. Due notizie apparentemente tanto diverse hanno attirato riflessioni e cupe considerazioni, alle quali abbiamo reagito con il gesto della zia. Lo so che il torto è mio, davvero non siamo attrezzati per capire. Fedez, il cantante più tatuato del panorama musicale, ci ha deliziato con un dibattito nientemeno che sulla Bibbia in una trasmissione del “podcast” Muschio Selvaggio, condotta con il meno noto collega Luis Sal. A beneficio della tribù di cui facciamo parte, gli analfabeti digitali, il podcast è una tecnologia che permette l’ascolto di file audio su internet attraverso la distribuzione di aggiornamenti. Colmata sommariamente la lacuna tecnologica, citiamo il titolo illuminante della conversazione: La Bibbia non parla di Dio?
L’ altra perla riguarda l’antica, prestigiosa università di Yale, in America. Il tempio della cultura ha preso una coraggiosa decisione, quella di non tenere più il corso di introduzione alla storia dell’arte “dal Rinascimento al presente”. L’obiettivo dei pensosi docenti è, appunto, “ripensare la storia dell’arte, introducendo dibattiti sul genere, il colonialismo e la classe sociale.” La tentazione è voltare pagina e pensare ai fatti propri: il torto è mio. Ma ci piace farci male, e allora qualche pensiero sfugge, a partire da considerazioni di due giganti (ma saranno ancora tali?) della cultura europea di ieri, al tempo del buio pesto, dell’infanzia dell’umanità, da cui ci hanno tratto la Ragione e il Progresso. Cervantes fa dire a Don Chisciotte: “chi non sa, sia pur signore o principe, può e deve entrare nel numero del volgo”. Prendi e porta a casa, Fedez, e anche voi, distinti professori protagonisti della chiusura della mente americana (e non solo). Goethe disse che nulla è più terribile di un’ignoranza attiva. O forse sì: l’ignoranza felice che sale al potere.
L’incipit di Fedez, al secolo Federico Leonardo Lucia, trentenne milanese che vanta l’ascendenza del “brigante” lucano Ninco Nanco (wikipedia dixit) è un fascio di luce nelle tenebre giovanili dei fans, anzi dei followers, nove milioni. “Ora dico una blasfemia, è il parere di un ateo. Questa cosa qui (la Bibbia, N.d.R.) è uguale a Harry Potter, al Signore degli Anelli. Però, dal momento in cui questo Harry Potter ha messo le fondamenta della società civile, dobbiamo chiederci di cosa parla veramente”. E’ già molto che l’idolo del rap, del pop rap e dell’elettrorap (boh…) conosca il Signore degli Anelli. Avrà visto il film, entusiasmandosi per gli effetti speciali, non certo per le storie degli Hobbit e della Contea. Più normale il riferimento a Harry Potter, la saga del ragazzino mago che ha venduto decine di milioni di copie. Personalmente, facciamo il tifo per i babbani, i non maghi, esseri inferiori e impuri cui ci si rivolge con il termine dispregiativo di sanguemarcio, perseguitati dal malvagio Voldemort e dai suoi Mangiamorte.
Ciò che turba il purista Fedez è che non si conoscano gli autori della Bibbia e che le traduzioni non siano fedeli. Sarà per i diritti d’autore, il contenuto non conta. Il noto studioso Marco Biglino, prestatosi incautamente al gioco di Fedez, tenta di riportare il dibattito su binari ragionevoli, ma la conclusione dell’uomo con nove milioni di seguaci è fulminante: ognuno può credere in ciò che vuole. Persino nella Bibbia, dunque, ma cadono le braccia dinanzi alla battuta che tronca ogni approfondimento. Si creda in qualsiasi cosa, fatti nostri, tanto la verità non esiste. Sono solo canzonette, “narrazioni”. E’ l’insegnamento essenziale della postmodernità, il soggettivismo indifferente, lo sbadiglio globale che guarda e passa oltre. Il mercato della verità ha un’unità di misura, il numero di “mi piace” e di follower in rete.
Non possiamo competere con il marito di Chiara Ferragni, altra cantante, la cui saga amorosa con Federico Leonardo Lucia appassiona milioni di appassionati di Instagram, Twitter e delle reti sociali, abbagliati da quotidiani “post” dei due in ogni posa. Anche Luis Sal, che, lo confessiamo con un certo imbarazzo, non sappiamo chi sia, ci ha messo del suo per portare il dibattito ancora più in basso. “Mi sembra un po’ barbaro andare in giro con il mito Crocifisso, con tutti i modi con cui si poteva rappresentare. E’ come se un fascista girasse con Mussolini a testa in giù”. Grammatica e sintassi non pervenute. Risata, anzi sghignazzo di Fedez, davanti alla marmorea frase del sodale, apoftegma postmoderno ad uso del volgo. Millenni di storia e civiltà che hanno improntato la vita di popoli e generazioni, sono servite. Il “mito Crocifisso” è smontato, per la gioia dei seguaci; ma infine ognuno, bontà loro, può credere ciò che vuole.
Sal deve avere velleità di esegeta o di filologo, giacché la riflessione seguente è elevata come il volo dell’aquila. “Il significato può cambiare per una parola. Nella Bibbia non si parla di Dio, la parola che gli si attribuisce in realtà è plurale”. Liquidato in un colpo l’intero biblismo, un sollievo. Un gruppetto di atei, più probabilmente indifferenti di totale ignoranza specifica, hanno stabilito che nella Bibbia non si parla di Dio, che le traduzioni impediscono di comprenderne il senso, e il crocifisso, oltreché esteticamente brutto, è un mito, termine di cui ignorano il significato. Il problema – ma ripetiamo, sappiamo di essere dalla parte del torto- è che questi sproloqui, tesi presumibilmente a vendere prodotti e promuovere le prestazioni artistiche di costoro- diventano cultura viva, oro colato per la post umanità dei “followers”. Fedez e Sal sono potenti “influencers”, addirittura ascoltati “opinion leaders”.
Poiché ci leggono prevalentemente anacronistici analfabeti digitali, per niente a loro agio nel labirinto postmoderno e postlinguistico, riportiamo le definizioni di un glossario di marketing, la scienza che insegna a vendere. La classificazione si basa sull’ampiezza del pubblico (numero di seguaci). “Possiamo suddividere gli influencer in quattro categorie: micro-influencer (fino a 25.000 follower); macro-influencer: (fino a 100.000); mega-influencer (fino a 500.000); celebrity (oltre 500.000). Le classificazioni descrivono il livello di influenza che questi individui sono capaci di esercitare. La categoria a cui appartiene Fedez, che certo gli assicura un elevato valore sul mercato, è quella di social broadcaster, in quanto personaggio di alta notorietà. La sua visibilità, conclude la definizione, garantisce una larga propagazione dei messaggi, “anche se non sempre gli influencer posseggono competenze specifiche o settoriali.”. Fedez non ha competenze specifiche, ma la sua opinione sulla Bibbia e quel tremendo “ognuno crede a quel che vuole” è diventato patrimonio culturale di moltissime persone, per lo più giovani.
Chi siamo per giudicare, noi che non abbiamo neppure un seguace e al massimo possiamo influenzare qualche familiare benevolo? La decostruzione, intanto, avanza e decostruisce anche se stessa. Jacques Derrida era un pessimo maestro, ma resta un pensatore e un uomo di cultura. Fedez e la sua spalla, l’ineffabile Sal, sono la concrezione del Nulla. Pietre e detriti gettati alla rinfusa diventano sabbia, sfridi, trucioli. Se li porta via il vento, ma al prezzo di perdere un’altra generazione diventata volgo o, come temeva Goethe, ignoranza attiva.
D’altronde, quali colpe attribuire a un semplice rapper, quando un tempio della cultura occidentale, l’università di Yale, lavora alla diffusione dell’ignoranza erodendo i pilastri della civiltà? Il corso sull’arte del Rinascimento si basava sull’antiquato testo di un docente, Vincent Scully, che non ha retto al politicamente corretto, anzi all’ analfabeticamente corretto. Meglio chiudere con il passato, cancellare, decostruire, abolire l’intollerabile “canone occidentale”. Si deve sapere infatti che gli artisti rinascimentali, europei, erano maschi, tranne qualche rara eccezione, bianchi e in genere eterosessuali. Pazienza se hanno dipinto la Scuola di Atene, come Raffaello, noto abusatore della Fornarina, o innalzato la cupola di Santa Maria del Fiore, come il Brunelleschi. Botticelli, diventato “piagnone”, ossia seguace del Savonarola, bruciò alcuni dipinti in quanto peccaminosi: era credente. Orrore e ludibrio.
Quanto a Leonardo, derubricato a ragione sociale di una holding energetica, e a Michelangelo, hanno qualche possibilità in più, poiché si sospetta che fossero nel giusto, ovvero omosessuali. L’arte occidentale è vietata in nome di alcune stupide idee in voga oggi, che non reggeranno al domani. Essenziale è l’odio di sé, l’oicofobia fatta orgogliosa ignoranza. Il preside di facoltà, lesto a infilarsi a favore di corrente, ha sentenziato che “la storia dell’arte non significa solo arte occidentale e mettere l’arte europea su un piedistallo è problematico”. Al posto del Rinascimento eteropatriarcale offrirà lezioni di “Arte e politica”, “La via della seta” e “Luoghi sacri”. L’ultimo corso dei vecchi, tramontati insegnamenti ha tuttavia registrato il record di iscrizioni. Prima dell’oblio a favore dell’arte dell’orda d’oro mongola o della creatività amazzonica, gli studenti si sono affrettati a imparare ancora qualcosa dai maestri del buio passato.
Grottesca quanto criptica una dichiarazione di un’altra docente, Marisa Bass, la quale, in nome della “diversità intellettuale degli studenti e della facoltà” ritiene i nuovi insegnamenti “un’opportunità essenziale per continuare a sfidare, ripensare e riscrivere le narrazioni che circondano la storia dell’impegno con l’arte, l’architettura, immagini e oggetti attraverso il tempo e il luogo”. Hegel, un pensatore tedesco maschio, bianco, presumibilmente etero, dunque un vero mascalzone, chiamava l’attitudine distruttiva che intravvedeva già al suo tempo, “furia del dileguare”. L’imperativo categorico è sbarazzarsi di tutto, denudarsi di sé stessi, abiti, pelle e carne, perdere ogni identità e scacciare con disgusto qualunque riferimento non contemporaneo. Siamo giganti preceduti da nani. La lente deformante con cui guardiamo al mondo è il presente, nella forma del politicamente corretto, dell’inclusività, della “tolleranza” in nome della quale non tolleriamo di ascoltare voci dissonanti.
La furia si abbatte anche sulle vestigia: basta con le statue a brutti ceffi del passato, come Cristoforo Colombo. Cancellare, abbattere. Non è una novità: i roghi dei libri e della cultura non sono una specialità del presente, ma i “nuovisti” non lo sanno. La furia del dileguare disperde anche la memoria. Il Dipartimento di Inglese della stessa università, che forma classi dirigenti della nazione più potente del mondo, volle “decolonizzarsi” abolendo i riferimenti ai poeti inglesi. Shakespeare no, Fedez può darsi. Gli studenti del Reed College di Portland, in Oregon, hanno esercitato pressioni affinché fosse abolito un corso di studi umanistici. In quel caso, gli attivisti hanno preteso che tutti i testi europei fossero rimossi e sostituiti da libri non europei come forma di “riparazione per le storie delle persone di colore eliminate per secoli”. La Divina Commedia è oggetto da anni di una richiesta di abolizione e censura; Dante è accusato di essere “offensivo, razzista e discriminatorio” da un’organizzazione per i diritti umani riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Una lirica di Antonio Machado accusa la decadenza della Castiglia, fondatrice della grandezza spagnola, con questi versi: “Castilla miserable, un dìa dominadora, envuelta en sus andrajos, desprecia cuanto ignora”, Castiglia miserabile, un giorno dominatrice, avvolta nei suoi stracci, disprezza ciò che ignora. Temiamo che questo sia lo stato dell’arte (metafora azzeccata…) del nostro presente. Avvolti negli stracci di un’ignoranza tracotante, disprezziamo ciò che non si conforma al modo corrente, alle opinioni di oggi elevate a universali. Ed è subito sera, nel senso che gli orientamenti di domani potrebbero cambiare il panorama. Intanto ci stiamo spogliando dei codici per comprendere, travolti dal cupio dissolvi. In Francia amano gli acronimi, la chiamano DD&E (destrutturazione, dissoluzione, entropizzazione). Entropia, appunto, cioè perdita di energia, irrecuperabile dissipazione progressiva. L’amputazione chirurgica, sistematica delle fondamenta su cui poggia l’intero edificio civile, non solo occidentale, sgomenta soprattutto perché al suo posto avanza il Nulla. Abolire, anzi ridurre al silenzio, nascondere Giotto, Masaccio e Palladio, cancellare l’educazione alla bellezza e alla verità è un’operazione regressiva, che fa ripiombare nel primitivismo del “buon” selvaggio, che è tale in quanto ignora.
Qualcuno parla di pregiudizio del buio, sinonimo di barbarie. Basta antropologia, è sufficiente la zoologia, la legge del più forte, del più barbaro, del più ignorante. Animali, anzi bestie poiché prive dell’innocenza, per la quale la vita non sarà che un caso, un transito senza domande, neppure lo “strano interludio” tra due immensi buchi neri come per Eugene O’Neill. Che resta, dunque? Forse l’opzione Benedetto di cui ha parlato Rod Dreher sulle tracce di Alasdair Mc Intyre in Dopo la virtù.
Così termina l’opera del grande comunitarista cattolico: “Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possono essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. (…) Non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando. Non Godot, ma un San Benedetto, senza dubbio molto diverso. “