APPROFONDIMENTI: il Corpo Mistico della democrazia rappresentativa – prima parte

 

APPROFONDIMENTI: il Corpo Mistico della democrazia rappresentativa – prima parte

Non si può negare che la democrazia rappresentativa sia una mistica, così come lo è stata la monarchia per diritto divino, e lo possa essere (chissà) quell’ente astratto che ci vede tutti compresi a livello corpuscolare che oggi siamo soliti chiamare Mercato. Tutte queste realtà sono caratterizzate da una presenza terminologica che rimanda alla metafora corporeo-organicistica, a dualismi, trasfigurazioni, emanazioni, simboli. È un linguaggio che esprime prensioni quasi sovrarazionali, ossia capaci di esprimere la realtà in un’interezza sentita, più che razionalmente costruita. Sono narrazioni calate dall’alto, cornici di senso che significano sotto tutti i profili i nostri comportamenti psico-sociali rispetto al potere che si è costituito autorità legittima. Quest’ultima, non bisogna mai dimenticare, è qualcosa di radicalmente più complesso, necessario e sofisticato del potere inteso banalmente come forza, dominio, egemonia.

Nel caso della democrazia c’è il trasferimento di una sostanza immateriale, che è diritto e potere assieme, che ci pertiene in modo innato secondo la concezione aprioristica del diritto naturale, ad un corpo di rappresentanti che pretende di arrogarsi non un fare legittimo, ma un essere legittimo. L’assemblea legislativa dei rappresentati è il popolo, e quando compare il verbo essere esso reca con sè un problema ontologico, che inerisce cioè alla sostanza. Ed è tanto più rilevante quanto evidente che il popolo non è affatto l’assemblea legislativa dei rappresentanti, non lo può essere stato in passato e né lo potrà mai essere in futuro da un punto di vista fisico. Ad essere interessante non è che questa ovvia negazione sia vera in ogni tempo, ma che dal piano immanentistico sia transitata a quello ideale, dove questo misconoscimento trova la sua dimensione autentica e che ora ha raggiunto un’intensità deflagrante. Che la si chiami «crisi della rappresentanza», o in altro modo, è assodato che sia in essere un fenomeno che vede la generale degradazione di ogni forma di logos politico, prima ancora che specificamente democratico. Sono in crisi le narrazioni unificanti e con esse la necessità dell’intermediazione operata dalle istituzioni in nome del «vivere bene», ossia della coesistenza ordinata. Il perché di tutto ciò è il quesito di sfondo ad ogni riflessione che cerchi di guardare da diverse angolature il problema, cogliendone di volta in volta aspetti interessanti. Qui si proverà a tracciare una sintesi, una storia ciritica sulla geneaologia dell’intermediazione rispetto alla democrazia, da un’angolatura piuttosto eccentrica rispetto a quelle prettamente politologiche e contemporanee, ritornando cioè a riflettere sul concetto di persona giuridica, l’antico Corpus mysticum.

Cominciamo quindi parlando di Eucarestia. «Accipite et manducate ex hoc omnes: hoc est enim corpum meum», queste sono le parole, nel messale romano, di Gesù Cristo durante l’Ultima cena, che gli ortodossi orientali hanno sempre chiamato (più avvedutamente) Mistica cena. É tale in virtù del fatto che gli apostoli non si cibano e abbeverano soltanto del pane e del vino, ma del pane che è corpo e del vino che è sangue di Cristo; in entrambe le sostanze vige una compresenza di accidenza materiale ed essenzialità trascendente.

Ora, è noto che attorno alla ricezione dell’Eucarestia ci sia un forte dibattito all’interno della Chiesa cattolica, a causa di coloro che si schierano in favore della Comunione ricevuta sulla mano, e recenti sussulti di preoccupazione nei riguardi di questa pratica sdoganata nel clima postconciliare. Affrontando la tematica in svariati interventi, monsignor Bux, noto teologo cattolico, ha posto l’accento su una dimensione interessante del problema: quello dell’intermediazione. Perché se Cristo disse agli apostoli «prendete e mangiatene tutti», noi, dicono i fedeli, non possiamo imitarli? Perché dobbiamo ricevere l’ostia sulla bocca, in ginocchio, quando tutti gli uomini (apostoli compresi) sono uguali? Tralasciando il problema prettamente teologico di considerare se gli

apostoli, durante l’Ultima cena, fossero ancora in una condizione totalmente laicale o meno, monsignor Bux ha preferito concentrarsi sull’aspetto etimologico della Scrittura: accipite, ricevete, e non prendete, come erroneamente passato nella traduzione dal latino all’italiano. La dimensione della Comunione è contrassegnata da una passività devozionale, in cui solo l’atto di accesso, la decisione del fedele di comunicarsi, è attiva. Dopotutto l’attesa a mani giunte è la sopravvivenza di un linguaggio del corpo antichissimo, pre-cristiano, simbolo di sottomissione.

Il presentimento di una prospettiva socio-culturale sulla questione potrebbe essere che l’ambizione, o forse la passione del fedele, a ricevere in mano il Corpus Christi, quale co-officiante del sacramento, e perché no «officiante di se stesso», sia la sublimazione confessionale di una passione che in realtà è civile, politica, e quindi ideologica. Qualcuno, non senza cognizione, potrebbe obbiettare che si tratta di un fenomeno di protestantesimo striciante, di cripto-sacerdozio universale, ma l’insofferenza contemporanea verso l’intermediazione operata dal sacerdozio non è protestantesimo, quanto una dignificazione smodata della dimensione egoica come ben più sacra del sacro, un superamento secolare che nel protestantesimo affonda semmai radici lontane. È l’intermediario il problema, è la pretesa di rappresentare, di gerarchizzare, di costruire un discorso generale, di narrare la realtà in una cornice comunitaria. È, in sintesi, l’accusa di utilizzare un linguaggio politico di tipo paternalistico.

Oggi, nei medesimi termini, si consuma la crisi della rappresentanza democratica. Non tanto per la perdita dei valori democratici (quali che siano), quanto per l’indebolimento cronico del suo potere costitutivo (e costituente) della statualità e quindi della sovranità. Lo scollamento, come viene chiamato, e la conflittualità su più livelli fra paese legale e paese reale, tra rappresentanti e rappresentati, ha raggiunto un livello tale da indurre una riflessione generale sul pericolo di una sua obsolescenza. Sarebbe da chiosare, compiendo un breve slancio in avanti, come i dubbi sulla perfomatività della rappresentanza facciano sorgere l’idea che questa, per salvarsi, debba rappresentarsi al popolo sovrano proprio come qualcosa di effettivamente performativo, e quindi rapido, efficiente, produttivo. Ma l’approdo di questa soluzione finirebbe con l’essere la tecnocrazia, con tutti i suoi già manifesti limiti. Non che questa forma di governo si allontani in modo così inedito dal bagaglio classico della riflessione politica, perché il dilemma sull’opportunità del «governo dei competenti» si può già estrapolare in Platone, sebbene con coordinate valoriali completamente diverse. I governanti-filosofi, sia ne La Repubblica sia nelle Leggi, sono titolari della scienza regia (episteme basiliké), un sapere che li eleva al di sopra di tutti e della legge stessa, di cui sono autori e dalla cui obbedienza sono sciolti. Tutto in nome di quella che noi oggi chiameremmo «competenza», che sinora si è manifestata come fredda ratio economicistica e gestionale delle risorse dello Stato. La domanda pregnante allora, che recupereremo alla conclusione, è: può il principio rappresentativo essere ricompreso, nella vastità delle sue implicazioni, all’interno di un solo parametro binario «redditizio/non redditizio» o «efficiente/inefficiente», rispetto a quelli ben più più universali «giusto/ingiusto», «vero/falso», «libertà/autorità», «società/stato», «diritto/dovere»?

Ritornando alla struttura del paragone iniziale, naturalmente non si vuole porre i fenomeni di intermediazione nel sacramento dell’Eucarestia e nella democrazia rappresentantiva come equivalenti. Eppure l’assimilazione è meno strumentale o bizzarra di quanto si possa credere. Non ci hanno forse mostrato, autori acuti e profondi quali Carl Schmitt e Ernst H. Kantorowicz, come i fondamentali giuridici e politici dell’occidente cristiano altro non siano che la secolarizzazione di concetti teologici? O, come ha sostenuto Böckenförde, dello Stato come prodotto tout court del processo di secolarizzazione (säkularisierung)? La democrazia rappresentantiva è concettualmente debitrice dell’Eucarestia, tanto quanto prima di essa lo sono stati la mistica regia e la statualità moderna. Tutte e tre si sono fondate a partire da un’idea, quella di «astrazione della forma aggregativa umana» (E.H.Kantorowicz), che noi oggi chiamiamo «persona giuridica» ma che nasce concettualmente a partire dalla definizione dell’ostia consacrata quale corpus mysticum.

Questa espressione ha alle spalle una storia semantica intricata, e segue dinamiche evolutive funzionali a esigenze inizialmente biblico-teologiche, per poi migrare gradualmente verso accezioni sempre più politiche e profane. C’è chi ha visto, nella ricostruzione filologica di questo e altri termini, il tentativo strisciante di creare un principio di autorità tradizionale da cui far discendere, secondo un criterio gerarchico, la legittimità delle istituzioni e del discorso politico in generale, legandolo indissolubilmente ad una origine religiosa. Senza addentrarsi di più all’interno di una polemica che abbisognerebbe di un grande dispiego di risorse, a cominciare dal pensiero di mostri sacri quali Weber e Durkheim, sarà abbastanza dire che le religioni, e successivamente e in modo particolare le grandi religioni monoteistiche, sono state non solo l’ambito spirituale, ma anche quello linguistico e filosofico-speculativo in cui le civiltà hanno sviluppato un pensiero complesso. Se non di autorità tradizionale, di sicuro è lecito parlare di una diacronia che affonda le sue radici in un primo contenuto che, richiamando il pensiero di Gian Battista Vico, sarà stato poetico e non razionalistico, ma non per questo mancante di pregnanza per lo sviluppo intellettuale umano.

A seguito dei primi dibattimenti teologici sulla presenza di Cristo nell’Eucarestia, a metà del XII secolo, il corpus mysticum subisce la prima e più importante evoluzione terminologica intercambiandosi col Corpus Christi, il nome con cui san Paolo, nelle lettere ai Corinzi e agli Efesini, definiva la realtà aggregativa della Chiesa in comunione perenne con Cristo. Tutti i fedeli partecipano ad un solo pane, e quindi sono un unico corpo (1 Cor 10,17); tutti i fedeli sono stati battezzati in un solo Spirito, senza distinzione, e tutti formano, ognuno per la sua parte, le membra del Corpo di Cristo (1 Cor 12,13.27). Il corpus mysticum diventa così la Chiesa, e il Corpus Christi l’Eucarestia. Ma tra il XII e il XIII sec. ci fu un grande risveglio degli studi giuridici, grazie al recupero del diritto romano, e tramite quel processo che è stato chiamato «teologizzazione del diritto» lo si è piegato alle esigenze della legge canonica e quindi della politica. In particolare, il filone teorico più significativo del Basso Medioevo, che tuttora impregna la nostra visione politologica, fu quello delle dottrine corporative e organologiche, ossia l’assimilazione del corpo umano quale dimensione fisiologica complessa a quella dello Stato nelle sue molteplici componenti socio-politiche. Immerso in questo contesto, papa Bonifacio VIII, con la bolla Unam Sanctam aveva dogmatizzato la concezione della Chiesa quale unum corpus mysticum cuius caput Christus, «di cui capo è Cristo». L’organicismo, il cui più famoso esempio è l’opera di Giovanni di Salisbury, il Policraticus, poneva il monarca quale capo, testa, del corpo che era il suo regno. Ma questa impostazione, naturalmente, era stata estrinsecata sempre dalle Sacre scritture, e sempre da san Paolo nella lettera agli Efesini, dove il ruolo della Chiesa in quanto interamente corpo di Cristo tende a sfumare, e dove invece si accentua invece il ruolo di Cristo quale «capo» e «sposo» della Chiesa (Ef 1,27; 5,29).

Sia la concezione sponsale, sia quella organicistica, sia anche quella più generale della Chiesa quale corpus mysticum, e cioè di unità immateriale, furono interamente riqualificate in ambito secolare, complice il diritto romano, ai fini della legittimità legale per la monarchia e per l’elaborazione di sua una teorica politica sistematica, in rapporto alla natura del re, del popolo, delle leggi e della giustizia. In merito alla monarchia qui non si può che spendere questo riferimento, poiché penetrarne gli aspetti nel particolare ci porterebbe lontano, ma certo è opportuno segnalare il reimpiego secolare dell’idea di corpus mysticum, perché proprio perdendo il suo significato eminentemente teologico-religioso, acquisisce quello giuridico e profrano che siamo abituati a conoscere. A metà del XIII secolo, il papa giurista Innocenzo IV, introdusse la nozione di persona ficta, ossia fittizia, artificiale, che poteva entrare in piena sinonimia con corpus mysticum quale ente morale e politico, di natura immateriale. La filosofia scolastica, tramite la grande operazione di recupero e adozione del pensiero aristotelico, vide lo stesso Tommaso d’Aquino definire giuridicamente la Chiesa come persona mystica. Nella corroborazione di questo passaggio ebbe un

ruolo primario la considerazione aristotelica dell’uomo quale animale sociale, zòon politikòn, destinato cioè dalla natura ed essere sociatus. Se l’uomo-animale-sociale era materia, potenza, allora la sua realizzazione in atto, forma, era la comunità politica. L’uomo ha come fine naturale, dunque, la partecipazione ad un corpus mysticum. Queste implicazioni furono poi perfezionate dai tomisti più tardi tra i secoli XVI-XVII, principalmente dal domenicano De Vitoria e dal gesuita Francisco Suarez.

Fatta quindi eccezione per l’ascendenza aulica del termine, corpus mysticum diventa per i giuristi medievali il paese, la città, la provincia, il regno e lo stesso universo. Sia in Inghilterra sia in Francia corpus politicum e corpus mysticum diventano sinonimi atti a designare la totalità del popolo o lo Stato senza una precisa distinzione. Cosa, quest’ultima, che si capisce bene come nel futuro diventi foriera di problematiche inerenti la sovranità. Nel XIV secolo, il giurista italiano Ubaldo degli Ubaldi già definisce il populus non semplicemente come la somma dei singoli individui, ma «hominum collectio in unum corpus mysticum», uomini riuniti in un corpo mistico. È anche da Ubaldo e dalla sua idea di corpus mysticum che Suarez riparte, nei primi decenni del XVII secolo, entrando a gamba tesa in un dibattito accesissimo tra il re protestante d’Inghilterra e Scozia, Giacomo I e la Chiesa romana per bocca e penna del cardinale Bellarmino. Fulcro del dibattito è l’origine e la posizione della sovranità del re rispetto a quella del papa, a seguito dello scossone confessionale della Riforma protestante che rimette in discussione la lettura dell’epistola ai Romani di san Paolo: «non esiste autorità se non da Dio; e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rom 13,1). Suarez si inserisce nel dibattito con una posizione critica e rivoluzionaria per entrambe le parti in conflitto, difendendo la naturalità (diritto naturale) della moltitudine, organizzata secondo comune consenso, come sovrana. Nelle sue opere, il De legibus e il Defensio fidei, sostiene che se il popolo forma un’unica entità morale e politica, una persona ficta, deve avere anche una sola volontà, e pertanto deve poterla esercitare sovranamente. Al contrario De Vitoria, richiamandosi all’organicismo, di cui rimaneva pur sempre sostenitore anche Bellarmino, riteneva insufficiente la moltitudine associata da comune consenso senza un capo, «un fattore esterno di coesione», il re, tramite il quale la comunità politica poteva darsi ordine interno. Rifacendosi alla concezione eminentemente repubblicana di populus in Cicerone, accettata e ripresa da sant’Agostino nel De Civitate Dei, «populus humanae multitudinis iuris consensu et concordi communitate sociatus», Suarez concepisce questa condizione come pre-politica, insita nella natura socievole e razionale dell’uomo, e pertanto capace di mirare a creare una communitas perfecta dove regni la giustizia e si cerchi il bene comune. Quindi il popolo si dà sovrano già in natura, prim’anche della sanzione di un atto positivo, quale l’isitituzione di un pactum societatis; così Suarez perviene al concetto di democratia naturalis.

Nonostante con Suarez non si evidenzi granché, vista la radicalità della sua posizione rispetto al contesto storico a lui coevo, è interessante segnalare, in modo estemporaneo, come in generale ci sia stata un’importante convergenza della Chiesa, intenta a difendere la sovranità universale del Papa contro l’assolutismo monarchico, con il pensiero liberale agli albori del suo sviluppo. In ambedue gli ambiti si elabora un pensiero politico che pone la società come condizione precedente alla nascita della statualità, anziche far coincidere i due momenti nel passaggio dell’uomo dallo stato selvaggio e/o barbarico a quello civilizzato (cosa che invece fa Hobbes). Per la Chiesa significava porre il primato sull’uomo in quanto cristiano, in unione mistica con Cristo, prima ancora che come suddito o cittadino; per il pensiero liberale ebbe lo scopo di dignificare l’uomo come titolare di inalienabili diritti prima della nascita di un potere costituito che li sancisse positivamente, con l’artificio del diritto naturale. Ma il punto nevralgico del pensiero di Suarez, qui rievocato per sommi capi, è che la communitas perfecta, per fondarsi, non possa prescindere dall’istituzione di un governo tramite atto positivo, il pactum. Che sia per istituire la monarchia, o la democrazia, è necessario che la persona ficta, che a tal punto in Suarez diventa sinonimo di democratia naturalis, deleghi il proprio potere sovrano a un singolo o ad una certa quantità di individui.

Come si vede, l’intermediazione ritorna come elemento costante ed inevitabile. Forse proprio perché, se non intermediazione, parola già connotata da una qualche parzialità, è la mediazione a rappresentare l’essenza (o un’essenza) della Politica. Dal momento che questa è il costituirsi di un logos fra rapporti di forza che, svuotati di ogni ragione e logica, si riducono a banale violenza che impatta sulla vita umana. Suarez avrebbe avuto reinterpreti e continuatori, e si muoveva nel momento più maturo di quello che Pierre Mesnard ha chiamato, con il titolo del suo volume, L’essor De la philosophie politique Au XVIe siècle (1936). È l’incontro della terminologia di persona ficta, erede del corpus mysticum nel significare l’astrattezza di un’unità politica dotata di volontà unificata, e di democrazia, quale moltitudine sociale fondata sul consenso, a consentirci di approfondire il tema dell’intermediazione, che è un aspetto notevole di quello, più definito nell’attualità storica, di crisi della rappresentanza.

Interpellando la storia del pensiero politico fino ai nostri giorni emerge subito chiaramente come, trasversalmente a molti autori pur diversi tra loro, compaia un’incompatibilità di fondo tra le espressioni Democrazia e Rappresentanza, che rendono percepibile la forma di governo nota come democrazia rappresentativa come un’irrimediabile discrasia. Democrazia è l’espressione che porta con sè l’esperienza intramontabile della polis ateniese e, nonostante la travagliata dialettica che l’ha animata, i principi basilari dell’isegoria (eguale diritto di parlare all’assemblea) e dell’isonomia (eguaglianza dinnanzi alla legge), risultanti in una partecipazione di tutti i cittadini alla cosa pubblica, e quindi alla legislazione, come attori fra loro paritari. Rappresentanza ha invece tutt’altra caratterizzazione semantica: se da un lato può significare la personificazione o la raffigurazione di valori, simboli e altre realtà astratte (si veda il corpus mysticum!), è innanzitutto un’istituto giuridico relativamente moderno che prevede l’incarico di una legazione di uno o più individui ad assolvere una questione per conto di terzi. Entrambi i significati si sono sempre sovrapposti nell’ambito pubblico, quando con ragione corporativo-cetuale (le diete, le corti di giustizia, i mestieri), quando con l’intento di costruire narrazioni e sistemi culturali dal contenuto legittimante per l’autorità (organicismo politico, teologia politica). Il quesito atavico è come possa esplicarsi la volontà della collettività se questa viene mediata dal collo di bottiglia della rappresentanza, la quale a prima vista sembra avere più lo scopo di sintetizzarla macroscopicamente che non di rispecchiarla fedelmente. L’autore che certamente risalta nella storia polemica di questo problema è Rousseau, il quale cercò di ricucire Democrazia e Rappresentanza, non senza contraddizioni, nella sua idea di volonté générale quale realizzazione del bene comune da parte del popolo per il popolo, contrapposta alla volonté de tous quale somma di interessi particolari che possono convergere su un certo proposito. In Rousseau non c’è «alienazione della volontà» del popolo, ma solo del potere, motivo per cui può anch’egli teorizzare una divisione dei poteri tenendo ferma l’uguaglianza legge/libertà, poiché «l’obbedienza alle leggi che ci siamo prescritta è libertà» (I, 8). Rousseau è l’uomo della democrazia diretta, che appare l’autentica ed unica declinazione politica della Democrazia stessa. Il suo nome nel tempo è stato sempre più associato ad un’aspirazione strisciante non alternativa alla democrazia rappresentantiva, bensì di perfezionamento interna a quest’ultima.

Il posizionamento ideale della Democrazia intesa come immediatezza e della Rappresentanza come mediatezza riporta ad una sintetica analisi del problema eseguita nel volumetto del 2009 della professoressa Nadia Urbinati, intitolato Lo scettro senza il re, sulla cui falsariga ci muoveremo per parlare delle «teorie della Rappresentanza». Se intendiamo quest’ultima come «unità» e «connessione» delle singole individualità, e quindi proiezione del «popolo sovrano», la questione più significativa da cui sviluppare una riflessione introduttiva è il «parodosso del diritto di voto». Con l’inaugurazione della democrazia rappresentantiva a suffraggio censitario, nell’Europa del XIX secolo, la libertà di stampa ne diventò il pilastro portante, fors’anche più delle stesse carte costituzionali. Ciò perché fu immediatamente chiaro a tutte le forze liberali progressiste (si pensi alla Francia della Restaurazione) che l’efficacia della propoganda elettorale veniva vanificata dalla

soppressione dell’opinione pubblica, in favore dei circuiti clientelari delle élite padronali. Tuttavia l’opinione pubblica come anima della Democrazia rappresentativa, su cui Habermas come nessuno ha profuso il suo interesse, si legava alla Rappresentanza in modo ambiguo. Se da un lato essa è fonte della legittimità, giuridicamente espressa tramite il voto, dall’altro il rappresentante viene reputato tanto più genuino quanto si discosta da questa, e agisce razionalmente e secondo coscienza per il bene comune, «al riparo dall’opinione pubblica». Questo è il paradosso che concretamente esprime il rifiuto della teoria rousseauiana, che da un certo momento in poi verrà tacciata di essere sovversiva della democrazia rappresentantiva stessa. È Benjamin Constant, l’avversario del pensiero di Rousseau, che ne rivela la criticità sotto il profilo della realizzabilità. Se è pacifico che ogni autorità debba emanare dalla volontà generale, ossia dall’intera comunità politica, l’idea per cui ogni associato del Contrat Social debba alienare tutti i suoi diritti, e l’esercizio di essi, alla comunità, è per Constant la premessa alla realizzazione di un dispotismo. La sua è un’ipotesi di prassi arguta: nonostante abbiano tutti egualmente rinunciato ai propri diritti, rimettendoli alla volonté générale, che è il sovrano, nel momento in cui questa dovrà praticamente esercitare il suo potere non potrà che farlo tramite apparati politico-burocratici strutturati gerarchicamente, i quali una volta investiti di un potere illimitato potranno agire dispoticamente pur continuando a dirsi legittimamente volonté générale. Questa decisa «confutazione» di Rousseau agli inizi del XIX secolo francese non apre però ad altrettante granitiche certezze: Constant, nel definire il potere legislativo intitolato alla camera bassa, ne parla come «potere rappresentativo dell’opinione», ricercando una sorta di principio di identità tra le «forme del giudizio» (N. Urbinati) dei rappresentanti e quelle dei rappresentati. Sebbene il tema necessiterebbe di ben altri spazi, si può qui socchiudere la questione generale con la suggestione provocatoria data da Frank Ankersmit nel suo Aesthetic Politics: «si può parlare di rappresentanza laddove c’è differenza e non identità tra il rappresentante e l’individuo rappresentato». Proprio in nome di questa differenza, di questa inconciliabilità delle volontà sia a livello orizzontale, come divergenza interindividuale, sia a livello verticale, come divergenza fra governati e governanti, si impone la necessità della finzione unificante della rappresentanza. Finzione non in quanto falsità, ma in quanto trascendimento di tutte le vicissitudini concrete, immediate e irriflesse, che percorrono la società, verso un fine generale, una narrazione unificante, e costante nel tempo, che si è soliti chiamare «bene comune» o, come si è preferito chiamarlo qui, l’imperativo del «vivere bene». In tal senso la rappresentanza è una realtà connaturata, come si è provato a testimoniare più volte, alla stessa politica, e che non esistano realmente forme politiche che non la prevedano. La democrazia rappresentativa, a prescindere dalle sue problematiche tecniche, non inventa ma trasforma l’idea di rappresentanza secondo le proprie esigenze, transitando dal re al cittadino quale soggetto di questa nuova mistica (non riuscendo comunque a pareggiare i conti con il re). Ma, proprio come in passato, questa teorizzazione è tuttora soggetta al cambiamento, indotto dagli sviluppi storici della forma politica «democrazia rappresentativa», cosicché è possibile parlare di diverse «teorie della rappresentanza», che indaghiamo non solo per riepilogare la storia del pensiero che vi sta dietro, ma soprattutto per vedere come l’idea di rappresentanza acquisisca e perda elementi caratteristici a seconda delle esigenze politiche.

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