APPROFONDIMENTI: Il destino della settima arte
«Perché si fa arte? E qual è il suo vero fine?». Non pretendiamo certo che la comune gente si ponga la domanda, del resto, a quale scopo affaticare la mente con tali quesiti? La vita non vi pone già i suoi pesi?
Poco male, quindi, o meglio, sopportiamo il banale galleggiare sull’onda della mediocrità che coinvolge tutti o quasi, e guardiamo oltre. Ben più grave è però il fatto che probabilmente proprio alcuni fra coloro che l’arte la fanno, la sovvenzionano e la producono non si facciano questa domanda e tutti gli altri ne diano una risposta completamente sviata. Su tale deriva, non useremo alcuna indulgenza, sia chiaro!
Che la produzione artistica non sia costretta dentro al concetto di utile è implicito, ma non scontato. L’utilità è una misura della vita pratica, specialmente della vita moderna. Oggi non vi è spazio nella mente degli uomini se non per ciò che vi è di più utile. Il tornaconto è ben più che l’onesta cura di sé e delle persone che ci sono affidate. Anche gli individui rientrano nel quadro di tale giudizio. Possiamo catalogare e scartare le cose allo stesso modo con cui possiamo scartare le persone. È forse ammissibile circondarsi di soggetti che non producano, o siano addirittura pericolosi per l’attuale sistema e ci facciano solo perdere tempo e danaro? Suvvia, che diamine!
L’arte però, dovrebbe restare lontana da questo marasma, il suo Regno è altrove, molto più in là, poiché il suo destinatario è solo e soltanto l’anima delle persone.
Già!, dell’anima sembra che non se ne preoccupi più nessuno e anche chi dice di tenerla in gran conto, forse ne ha un’immagine un po’ offuscata. E se accadesse che l’arte non si rivolgesse più alla dimensione sottile dell’uomo, ma solamente alla sua psiche quando non addirittura ai suoi caldi umori? Immane tragedia! ma se così fosse, qualcuno se ne avvedrebbe e senza dubbio correrebbe ai ripari. Figuriamoci lasciare che questo scempio si compia, senza muovere un dito! Quale ingenuo ottimismo alberga ancora nelle vostre menti se credete a tutto ciò! È bene scacciare subito queste debolezze del pensiero, non giova nemmeno alla salute.
Ebbene sì, i creatori di arte sono sprofondati nel caotico mercato della modernità, risucchiati dalle sue confortevoli illusioni; lì dove ogni cosa si compra e si vende e la gratuità o il dono di sé non sono semplicemente accantonati, ma addirittura banditi. I fuorilegge del gesto oblativo si nascondono come clandestini e possono solo contare sulla mano tesa di qualche folle ben camuffato da perfetto borghese. Fare del bene è quanto di più eversivo ed eroico oggi vi possa capitare. Garantito!
Nell’infernale democratizzazione che ha polverizzato ogni cosa, diviene quanto mai difficile disporre le attività dell’uomo sul giusto ripiano, in un ordinato schema gerarchico. Forse che l’arte ha un valore superiore ad altri fenomeni del vivere? Se così fosse allora non potrebbe rispondere agli stessi dettami che regolano gli scambi all’interno della società. Purtroppo però, i fatti oggi stanno proprio così. Per compensare questo svilimento dell’attività artistica, ecco tuttavia venire in pronto soccorso la celebrazione dei moderni geni, come “star” da adorare, e invidiare, salvo poi dimenticarsene molto in fretta. Esattamente perché, in fondo, non sono poi tanto diversi da noi, se non per la celebrità e la ricchezza a loro concessa. Il piedistallo su cui vengono innalzati è effimero quanto mediaticamente convincente.
L’arte provoca, interroga, spiazza; così strombazzano gli altoparlanti della kultur-propaganda, ma solo per gli ingenui e i benpensanti che sognano un mondo da cartolina d’altri tempi, per le suocere gonfie di acidità tanto quanto di bigottismo. In realtà essa è ormai semplicemente noiosa, spenta e ripetitiva. Altro che creatività! Qui siamo alla riproduzione in serie come nelle fabbriche. Dove sarebbe la pennellata d’autore, dove l’intuizione che ci fa cadere tutti in ginocchio?
E veniamo ora al cinema, la settima arte, ultima e sfavillante! Il discorso fin qui introdotto varrebbe bene per ciascuna espressione della creatività umana, ma noi vogliamo soffermare lo sguardo sul cinema in virtù non solo della sua perfetta incarnazione dello spirito di questi tempi, ma anche per la sua sommersa missione escatologica, così come noi la intravediamo.
Il denaro, che tutto muove in questo scampolo finale di umanità, è la forza, ma anche la gabbia dell’arte cinematografica. Potere e insidia vanno sempre a braccetto.
Senz’altro le tecnologie sempre più avanzate e universalmente fruibili, hanno reso negli ultimi anni più facile realizzare film con un minore dispendio economico. Tuttavia le cifre restano e resteranno sempre importanti.
Ciò che esce da una porta deve, almeno in pari misura, rientrare dall’altra. La bilancia deve restare in equilibrio, ma sarebbe auspicabile per gli audaci produttori, se questa pendesse decisamente verso le loro tasche. Di questo, non possiamo fargliene una colpa. Qui nessuno brama la loro rovina, anzi. Ciò che difetta però è il metodo e ogni arte se manca di metodo è solo talento disordinato.
Fino a pochi anni fa, resisteva nell’ambiente cinematografico un piccolo residuo di quello che potremmo definire: il sacro principio corporativo. Come nel Medioevo i giovani artisti provenivano da una lunga iniziazione artigiana, là dove il mastro trasmetteva non solo il metodo, ma anche i segreti del mestiere custoditi da ogni famiglia, così si salivano i gradini che portavano anche dietro alla macchina da presa, dopo una dura gavetta sui set.
La grande finzione del cinema, che simula la realtà sul grande schermo, è opera di molte figure che osservando e imitando il lavoro di chi, più grande di loro, aveva l’esperienza e la mano sicura, hanno appreso non solamente un mestiere, ma i segreti di un’arte. Questo discorso vale anche per i registi, anche se per loro vi sono senz’altro delle peculiarità.
Le scuole di cinema negli ultimi tempi, si sono d’altro canto, moltiplicate a dismisura, così come i corsi universitari specializzati. Da queste troppo numerose accademie, sciamano ragazzi desiderosi di mettersi in mostra e di apporre il prima possibile la loro firma su un film o un documentario. Non escludiamo che, nascosti in quella miriade, vi siano alcuni genuini talenti che avrebbero però bisogno di essere meglio forgiati e “provati”.
Tale sistema ha però abbattuto le ultime barriere che ancora preservavano una certa umanità, ci azzardiamo perfino a definirla di stampo tradizionale, che si respirava sui set. Ora l’anonimo atomismo che prima ha corrotto e disumanizzato ogni forma di lavoro nella società civile, ha trovato finalmente ospitalità anche nei terreni dell’arte cinematografica. Questa, la sua ultima e più grande vittoria.
Ma questo da solo non può spiegare la crisi profonda che l’arte e in special modo il cinema sta attraversando. Ogni crisi è prima di tutto una crisi spirituale! La spersonalizzazione dell’istruzione e dell’educazione, il sapere che non è più nemmeno lontanamente sapienza, sono resi possibili e addirittura unici attori incontrastati dalla liquefazione della società civile, divenuta ormai una semplice giungla economica, bilanciata dall’altra parte, dal massimo grado dello statalismo sempre più ideologizzato. Ci può essere davvero spazio per la genuina arte in un mondo siffatto? Non vorrei offendere la vostra intelligenza anticipando la risposta. Sono certo che la troverete da voi.
L’audace produttore, burbero e filibustiere, lascia il posto ormai all’impiegatuccio del grande schermo, il quale finge di proporre al pubblico titoli di grande forza provocatrice e di rilevanza sociale, quando non addirittura di avanguardia. Egli non è altro che un diligente servo del sistema, l’ultima frontiera invisibile, di quello che una volta osava chiamarsi il Partito Unico. Almeno a quei tempi, si conosceva il nemico e si poteva detestarne il volto che aveva un nome e un cognome. Ma a noi, che siamo di certo più evoluti, tocca invece subire la forza invisibile di questa entità virtuale che non si lascia definire e tantomeno afferrare. La gente, in realtà, nemmeno se ne avvede e cammina dritta e sicura convinta di giungere alla propria meta. Ecco signori, ancora un passettino e poi è fatta: il burrone livella tutti!
Perché osare produrre qualcosa che il sistema culturale, oggi tiranneggiante, rifiuterebbe con un colpo deciso, se proprio a quelle porte si è costretti a bussare per avere il denaro necessario a finanziare l’opera? La società è una poltiglia stagnante e là dove sembra risvegliare un afflato mecenatistico, non fa che scimmiottare gli stessi luoghi comuni dell’intellighenzia al potere. Non vi è nessuno che batta altre strade. Non si sa davvero dove mai potrebbero condurre! Meglio non correre certi rischi. La sicurezza, prima di tutto!
Tutti diligentemente in fila davanti agli uffici del reverendissimo e illustrissimo, nonché insostituibile Ministero. I bandi per accedere ai fondi pubblici cercano i loro esilaranti segugi come un padrone i suoi fedeli cagnolini. Tutto è secondo le regole e gli schemi imposti dalla società. Se non si hanno i requisiti, se la tua immagine è perdente, si resta fuori. Avanti un altro! La ruota non si ferma.
Cosa possono le idee e un’esperienza maturata sul campo, fra sudore e prove che hanno lasciato cicatrici profonde? Cosa può il genio che non si lascia imbrigliare da lacci che umiliano la sua umanità? Abbiamo ancora bisogno di geni, o è sufficiente accontentarsi di spavaldi talenti che non ci scuotono dalle nostre comodità e dalle nostre ridicole certezze?
L’odierno produttore non è diverso dal regista suo protetto. Entrambi cercano di marcare il terreno, come un animale che si agita frenetico quando avverte il pericolo di altri maschi. Desiderano solo ritagliarsi uno spazio dove altri non possono entrare e dove il pubblico, in estasi, può ammirarli. Vogliono riuscire a tutti i costi, ma non custodiscono quella scintilla che è è segno di unicità e di altruistica urgenza. L’arte è per gli altri, solo per gli altri, non è un fatto egoistico.
Non si può dunque rischiare di fallire, perché non c’è posto per tutti e se si perde il treno non si sale più. Non si produce ciò che è bello – ammesso che ancora qualcuno sappia riconoscere il Bello – ma solo quello che si crede che funzionerà. Deve funzionare per le commissioni del Ministero, delle regioni e deve funzionare per le giurie dei Festival e così via. In fin dei conti, sanno tutti benissimo che in quei salotti si muovono sempre le stesse persone, tutte fedeli al decalogo del progressismo radical-chic-liberal-democratico.
Queste mummie viventi si auto-celebrano e si sostengono vicendevolmente. Gli occhi fintamente sorridenti, celano invece una diffidenza maligna, di chi sa che ognuno potrebbe essere la prima vittima immolata. Meglio guardarsi le spalle e non dire mai tutta la verità. Sarebbe da sciocchi.
L’impasse parrebbe mortale e non ci illudiamo certo che non lo sia. Non si viene guardati davvero per il proprio talento o per la consapevolezza a cui si è giunti e che non può che essere un dono da offrire all’umanità, ma solo se si aiuta il povero produttore a vincere, o perlomeno a fare un passo in più verso il traguardo.
Se le tue idee, il tragitto avventuroso della tua vita, sono di peso, sarai scartato inesorabilmente. È come la selezione davanti ad un locale alla moda: non hai il vestito e la posa adatti, tornatene a casa! Al tuo posto siederà un meraviglioso e nuovo esemplare dell’homo creativus. Colui che dal nulla, appunto, crea solo il nulla.
Di fronte al bello non si pensa: «funzionerà?», quanto piuttosto: «come posso tirarmi indietro davanti a tale grandezza? Aprirò io una strada anche là dove sembra esserci solo sterpaglia secca!». Ingenue fantasticherie, direte voialtri ben più scaltri del sottoscritto. Ma se di arte vogliamo parlare, allora dobbiamo abbandonare le meschine trovate del volgo e le soffici, false verità dei benpensanti, e rischiare tutto.
L’arte è una sublime sozzura. Si scava nel fango e fra le pietre aguzze, perché l’onore da conquistare è molto più che gli incensi delle folle e dei giornali. C’è in ballo l’anima, amici miei! Coraggio anche di perdere e cadere, di essere additati come un pericolo. Essere anatema e salvezza allo stesso tempo. Questo dovrebbe muovere chi il cinema lo fa altrettanto di chi lo produce.
Se i salotti della cultura mortifera non hanno più orecchie e cuori per questo, allora è dalle retrovie che si deve levare un moto di speranza. Il cinema ha bisogno di ciascuno di noi, ciascuno che ancora sente nel più profondo dell’anima quella voce spesso soffocata e tremolante che vi grida: «Senza vera arte non si può vivere!».
I tempi corrono veloci, ma agli eroi basta poco, a volte un attimo e la luce torna a risplendere proprio là dove si credeva che le tenebre stessero per trionfare. Si facciamo avanti i prodi, l’ora è questa!
Postilla
Non vorremmo ora togliere l’ardore poc’anzi invocato, ma proviamo a suggerire un diverso finale. E se, invece, tutto quello che abbiamo sopra esposto, stesse ad indicare la fine prossima del meraviglioso mondo delle immagini in movimento, dei fotogrammi che scorrono rapidi sul grande schermo? E se la chiamata fosse al contrario quella di tornare alla più povera e scarna pagina scritta, non semplicemente quella virtuale, ma in modo particolare quella impressa sui fogli di bianca carta? Là, dove le libere idee possono svolazzare nel cielo ormai putrido e nebuloso della menzogna progressista, come novelli samizdat dispensatori di speranza. A nulla importerebbero più gli onori e i sorrisi di benevolenza. Verità, vi prego, solo la Verità! Di che altro abbiamo bisogno? Non servono grandi ricchezze, o amicizie altolocate; prima di tutto un cuore saldo e un intelletto sano. La restaurazione dell’arte incomincia da qui. Nessuno però si può tirare indietro. Siete tutti avvertiti.