APPROFONDIMENTI: Jose’ Ortega y Gasset: le masse, la libertà e la circostanza – Parte I
Parte I
Io sono io e la mia circostanza.
Josè Ortega y Gasset era davvero un liberale? E’ questa la domanda che mi pongo da molti anni, da quando, per una singolare coincidenza o circostanza – circostanza, la parola più orteghiana di tutte! – lessi La ribellione delle masse e le Meditazioni del Chisciotte, le due opere più conosciute di una produzione vastissima, quasi contemporaneamente alla Democrazia in America di Aléxis de Tocqueville, altro liberale assai singolare. Insieme con il giurista e filosofo del diritto e della storia Carl Schmitt, Dostoevskij, indagatore dei misteri dell’anima, cristiano sedotto da Gesù, Ortega e Tocqueville sono gli autori che più hanno influito sulle mie personali convinzioni. Un secolo divide la vita di due giganti del pensiero libero, ma il quesito è per entrambi sempre aperto: liberali o conservatori, sostenitori critici della modernità avanzante o lucidi, angosciati osservatori dell’ineluttabile irruzione delle masse nella storia?
Entrambe le cose, più tanto altro. Segno di grandezza, dell’impossibilità di imprigionarli in una casella. Don José, figlio di un influente giornalista madrileno, nato nel 1883 e morto nel 1955, fu avversario di Francisco Franco, ma dopo qualche anno di esilio rientrò in patria, dove animò un’influente università privata, l’Instituto de Humanidades, continuando anche l’instancabile il lavoro di animazione culturale attraverso la Revista de Occidente, fondata nel 1923. Lascia un’eredità di migliaia di pagine, le Obras, frutto dell’interesse inesausto per molteplici ambiti della cultura, indagata ai massimi livelli, lontano dalla superficialità del poligrafo. Tocqueville, conte normanno, il primo politologo della storia, ministro e uomo politico del dopo rivoluzione francese, visse tra il 1805 e il 1859. Ho sempre avuto la tentazione di iscrivere i due nel campo del pensiero conservatore, non senza ragioni, ma sarebbe un’associazione abusiva, incompleta e addirittura ingenerosa.
Ortega liberale fu certamente, ma di un liberalismo assai particolare, più vicino all’individualismo elitario e a una visione “alta” della vita e della storia. Il pensatore spagnolo fu soprattutto un innamorato della libertà, sorella della cultura, della vitalità esuberante, dell’aristocrazia dell’animo, rassegnato ma atterrito– come Tocqueville un secolo prima- per l’avvento dell’era delle masse. Individualista, certo, e, in qualche misura esistenzialista. L’uomo, per Ortega, non è l’atomo senza radici del liberalismo classico, ma un essere che vive “qui e ora”. Essere è quindi “esserci”, alla maniera del Dasein di Heidegger, il filosofo tedesco con il quale intrattenne rapporti intellettuali.
La sua frase più nota, tratta dalle Meditazioni del Chisciotte (1914) è anche la sintesi della sua concezione dell’uomo ” io sono io e la mia circostanza “. Con la circostanza Ortega non vuole indicare solo l’ambiente fisico in cui ogni essere umano vive, ma il contesto sociale e storico da cui è circondato e in larga misura improntato. La circostanza orteghiana è la base che si impone ad ogni uomo a partire dalla nascita: è il luogo, il tempo, la società. “Circostanza! Circum-stantia! Le cose mute che stanno nei nostri più prossimi dintorni! “. Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo, io sono io e la mia circostanza e se non la salvo, non salvo neppure me stesso. Con tale affermazione, Ortega sottolinea l’unicità della vita di ogni essere umano, non trasferibile (nessuno può vivere al posto mio) improntata da precise circostanze spaziali e temporali. Io nasco in un certo tempo e luogo e, in conseguenza di ciò, la mia vita si presenta con determinate caratteristiche.
Le circostanze sono molteplici, diverse da un uomo all’altro, il che rende unica ogni vita. Le circostanze determinano ogni singolo individuo e la loro eliminazione comporta l’annullamento di noi stessi. Dunque, la circostanza è il radicamento concreto in un tempo e in una comunità. L’uomo, per Ortega, è innanzitutto erede: di un passato, di idee, principi e credenze che lo precedono. Arriva nel mondo con una serie di informazioni e conquiste già date e già realizzate. È importante che conosca la sua storia, che è coscienza comune, parte della circostanza. Poiché la vita è continuo mutamento, deve far crescere la sua eredità storica, senza disperderne i frutti a causa della perdita dei principi comuni. Su questo tema decisivo, nel tempo della grande presente cancellazione culturale, dell’eredità rifiutata, del lascito culturale europeo rimosso in cambio di nulla, verifichiamo l’attualità del professore madrileno.
Studioso di Nietzsche, era immerso nella crisi della ragione europea e appartenne interiormente alla corrente che i tedeschi chiamavano kulturpessimismus. Portato a una comprensione olistica della realtà, indagatore della letteratura e dell’arte, ma anche della tecnica moderna (Meditazioni sulla tecnica), Ortega raggiunse il vertice delle sue riflessioni con la Ribellione delle masse, del 1930, a metà tra la prima terribile guerra mondiale e la seconda. L’incipit è la sintesi dell’intero pensiero di Ortega. “C’è un fatto che, bene o male che sia, è il più importante nella vita pubblica dell’era presente. Questo fatto è l’avvento delle masse al pieno potere sociale. E siccome le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza e tanto meno governare la società, vuol dire che l’Europa soffre attualmente la più grave crisi che tocchi di sperimentare a popoli, nazioni, culture. “
La storia, per lui, è sempre fatta da “minoranze selezionate”. Le masse, lo dice la parola stessa, non hanno forma, solo consistenza, e anche quando pretendono o credono di comandare, in realtà cercano sempre qualcuno a cui obbedire. Sentono “nostalgia del gregge” e non sopportano l’uomo libero e intelligente che pensa con la propria testa. Importante è il debito contratto da Elias Canetti nell’opera di una vita intera, Massa e potere, con il lascito di Ortega. Le masse formano un coro che non può fare a meno della bacchetta del direttore, il quale per dominarle, deve scendere al loro livello, farsi, come loro, massa volgare. O fingere. Con siffatte convinzioni, difficile incasellare Ortega all’interno del pensiero liberale, a meno di non riconoscere la crisi inevitabile del liberalismo classico nelle società di massa. La democrazia non è il liberalismo, ammonisce egli stesso, ne è piuttosto la degradazione, “il brutale impero delle masse.“ Il primo motivo del progressivo dissolvimento del liberalismo è l’irruzione delle masse nella storia, ostacolo per la connotazione liberale di qualunque Stato.
Viene da chiedersi se l’attuale drammatica rivincita delle oligarchie contro i popoli non sia una consapevole reazione all’avanzata delle masse. Se così è, il rimedio è peggiore del male, ma Ortega avrebbe pronta la spiegazione: non di minoranze selezionate si tratta, di aristocrazie della cultura e dello spirito, ma di oligarchie, cricche. Un brillante esegeta di José Ortega y Gasset è Gianfranco Morra. Al sociologo e filosofo bolognese, autore tra l’altro di Europa invertebrata, sulle tracce del celebre Spagna Invertebrata di Ortega, dobbiamo uno squarcio illuminante. La democrazia dell’uomo massa è una democrazia individualistica dei diritti, pertanto ha smarrito la sua dimensione etico-religiosa. L’uomo massa intende per democrazia “fare i propri comodi “per mezzo di uno Stato che lo assiste “dall’utero al sepolcro”. E’ un “bambino viziato”, è un signorino insoddisfatto. Il sapere dell’uomo massa, perduta la tradizione della “paideia” classica, si frammenta nella “barbarie dello specialismo” con il paraocchi, si serve di una tecnica che da mezzo è trasformata in fine. Non ci sono luoghi più “barbari” delle scuola e dell’università in una civiltà di massa.
E’ la sintesi perfetta del pensiero di Ortega, strano liberale aristocratico dello spirito che considerava il liberalismo, non per caso nato dentro la tradizione cristiana, la più elevata ideologia politica per la sua intenzione morale e spirituale, andata perduta per la prevalenza al suo interno della dimensione economica- il liberismo – e la vittoria dell’indifferentismo morale e religioso. Per lo spagnolo, il liberalismo non è un progetto politico, ma un habitus etico spirituale, “la suprema generosità, il diritto che la maggioranza concede alle minoranze. È il più nobile appello che abbia risuonato nel mondo; esso proclama la decisione di convivere con il nemico, e di più, con il nemico debole”. Agevole concludere che un progetto siffatto è incompatibile con la società di massa. La massa non desidera affatto convivere con chi la pensa diversamente, odia senza tregua tutto ciò che non si identifica con la miseria intellettuale e morale di cui è portatrice. Anche su questo tema, è evidente il debito con lo Zarathustra di Nietzsche. Il problema dell’Europa contemporanea – l’attualità orteghiana è sorprendente- è che “è rimasta senza morale”, anche per responsabilità del liberalismo reale.
Gli interessi di Ortega, dicevamo, furono molteplici e il suo genio versatile. Profondamente spagnolo, immerso nella crisi nazionale seguita alla perdita delle ultime vestigia di un grande impero (la “generazione del ’98”), si chinò sulle ferite della patria amatissima con un testo a cavallo tra storia, sociologia e scienza politica, Espana invertebrada, nel quale attribuì i mali spagnoli alla mancanza di vere aristocrazie capaci di esserne la spina dorsale, le vertebre che sostengono la nazione attraverso forti istituzioni, senso della storia e dignità dello Stato. Dopo una guerra civile sanguinosissima e la lunga stagione di Franco, la restaurazione democratica e monarchica ha confermato i timori di Ortega: la vecchia nazione iberica è più agiata, ma divisa come non mai, balcanizzata, disincarnata oltreché invertebrata.
Se possiamo formulare un giudizio, è nostra convinzione che Ortega fu tante cose, ma essenzialmente un filosofo. Non un sociologo, fotografo della società, o uno storico attento ad indagare le cause dei fenomeni, bensì un pensatore con un preciso senso della vita, consistente nell’accettare ciascuno la propria inesorabile “circostanza” e, nell’accettarla, convertirla in vocazione. Questo implica un ulteriore passaggio filosofico e destinale: ” l’uomo è l’essere condannato a tradurre la necessità in libertà “. Nel concetto di libertà vi è alla base la fantasia, il tramite attraverso cui ognuno inventa la propria esistenza. Si tratta di una forza che rende l’uomo creatura che progetta ed esercita la libertà per “decidere ciò che dobbiamo essere in questo mondo”. Dobbiamo: la libertà individuale è un dovere morale, una necessità che attua la vocazione personale. E’ evidente che l’uomo di Ortega è il contrario della massa, colui che se ne distanzia vivendo la propria personale circostanza.
In Aurora della ragione storica, Ortega esprime un altro dei suoi principi essenziali: vivere significa, fin dall’inizio, essere costretti ad interpretare la nostra vita. L’uomo, insomma, è attore di se stesso, come spiega in Idea del Teatro, testo nel quale appare una riflessione cruciale: “l’uomo non ha una natura ma una storia. L’uomo non è altro che un dramma. La sua vita è qualcosa da scegliere, costruire mentre procede. Essere umani consiste in quella scelta e in quella inventiva. Ogni essere umano è il romanziere di se stesso, e sebbene possa scegliere tra essere uno scrittore originale o uno che copia, non può evitare di scegliere. È condannato ad essere libero.” E’ forse questo il centro dell’intero pensiero orteghiano: la libertà come destino, croce dell’uomo, ma anche ricerca, costruzione costante di sé.
Tutto il contrario dell’uomo massa che vede emergere dalle brume della storia. Originale è la definizione orteghiana: massa è tutto ciò che non valuta se stesso – né in bene né in male – mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri. Agghiacciante descrizione dell’uomo occidentale dell’ultimo secolo. La descrizione del potere della massa è una delle pagine più significative e drammatiche di Ortega. “La massa travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non è come tutto il mondo, chi non pensa come tutto il mondo corre il rischio di essere eliminato “. L’uomo-massa non è identificato con una classe sociale, non è affatto il povero o l’operaio, ma l’uomo medio, senza qualità, soddisfatto di essere quel che è, non intenzionato a migliorare perché si considera già perfetto. La sua cultura è fatta di “luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenze di idee, o semplicemente di vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nella sua coscienza”. Da questo nasce nell’uomo massa la feroce volontà di soppiantare, cancellare gli uomini superiori; ed è così che nasce l’azione diretta, ovvero la violenza della massa, fisica o psicologica.
La caratteristica più sorprendente di Ortega è la profondità dell’indagine di ogni aspetto dell’agire umano, una sorta di inveramento del celebre verso di Terenzio nell’ Heautontimorùmenos; homo sum; humani nihil a me alienum puto: sono un uomo e nulla di umano mi è estraneo. Importantissimo è il contributo alla comprensione dell’arte del Novecento. Il saggio La disumanizzazione dell’arte è il primo e più riuscito tentativo di capire il gigantesco cambiamento di paradigma – estetico e culturale- introdotto dalle avanguardie artistiche del primo Novecento Per Ortega, quelle avanguardie hanno promosso una visione del mondo del tutto nuova, direttamente relazionata con le molteplici trasformazioni dell’epoca. Più che un diagramma di idee, l’opera è una pista di fenomeni, una corrente di motivazioni e di indizi ancora allo stato di fermenti, all’interno dei quali prende vita il concetto di disumanizzazione dell’arte, teso a definire l’estetica contemporanea come divorzio dal realismo romantico e naturalista per spogliare l’arte dai suoi contenuti specifici. Ortega intuisce l’orientamento fondamentale dell’esperienza artistica del Novecento, avviata febbrilmente verso l’extraumano e l’informale, tesa a fuoriuscire dalla rappresentazione concreta dell’uomo.
Stupisce in Ortega, così attento a ogni sfumatura dell’animo umano, una certa indifferenza religiosa, tanto più singolare in una personalità così profondamente spagnola, permeata quindi di un cattolicesimo dai tratti mistici. In Schema della crisi, tuttavia, Ortega osserva che la perdita di autenticità dell’uomo- massa, immerso nella frenesia della vita, ha una delle sue ragioni più forti nella mancanza di pace interiore. La soluzione è la riconciliazione con la spiritualità, un rinnovato abbandono al soprannaturale e a Dio, vie di salvezza per arginare la ribellione delle masse. Un po’ poco per un pensiero articolato come il suo.
Ortega, peraltro, non eluse mai il problema della verità; l’uomo è tale quando sente la necessità di sapere. La ricerca della verità è ineluttabile, così come l’indagine sul significato della vita. La verità esiste, ma va conquistata senza pretendere di ottenerla rifacendosi ad un’unica prospettiva. La molteplicità di prospettive è un’altra costante del suo pensiero. C’è una verità “storica”, ma anch’essa cambia con il mutare del tempo e delle circostanze. E’ la principale concessione di Ortega al relativismo della modernità, ed è altresì la chiave per comprendere il particolarissimo liberalismo di Ortega. L’uomo massa non apprezza le sfumature e disprezza la discussione. A questo egli contrappone il liberalismo che convive con l’avversario, lo accetta e gli conferisce cittadinanza politica. La massa odia a morte ciò che le è estraneo. Quando agisce da se stessa, lo fa in un’unica maniera, il linciaggio. “Non è affatto casuale che la legge di Lynch sia americana, dato che l’America è il paradiso delle masse. “
La massa è per definizione agita, amministrata. Ecco dunque la prevalenza dello Stato, la sua ingerenza nei fatti privati, l’estensione del suo potere. La modernità è l’epoca del “signorino soddisfatto”; a tutto deve pensare lo Stato, l’uomo-massa si deve limitare ad essere conformista, un bambino viziato che dà per scontati benessere e progresso, crede che la vita non necessiti di sforzo e non sia necessario che emergano i migliori.