APPROFONDIMENTI: l’infezione americana – il regno della quantità

 

APPROFONDIMENTI: l’infezione americana – il regno della quantità

“Il dominio americano del mondo è un fenomeno negativo, derivante non da un eccesso di energia, ma da un deficit di resistenza “Così scrisse Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente. Per Carlo Marx, in America il credito ha sostituito il Credo. Trionfo della distruzione creativa e del calcolo egoistico, dello zombi turistico sostituto dei costruttori del Partenone, del Colosseo e dell’Alhambra. Più l’uomo moderno è nullo, più diventa americano. L’americanismo gli ordina di rinunciare al suo denaro, alla sua razza, alla famiglia, alla libertà, al rango, alla sua cultura, lingua, nazione e tradizione. Vi è nell’americanismo una tossicità sorprendente, una vischiosità da carta moschicida, un’attrazione inspiegabile se non con le parole di un poeta, Charles Baudelaire: “spietata dittatura dell’opinione pubblica nelle società democratiche; non supplicarla di carità, indulgenza o elasticità nell’applicazione delle sue leggi ai numerosi e complessi casi della vita morale. Sembra che dall’amore empio della libertà sia nata una nuova tirannia, la tirannia delle bestie o la zoocrazia. “

Sono queste alcune delle caratteristiche salienti, le illustrazioni del paese di Benjamin Franklin, inventore di una moralità da bancone di bottega, eroe di un ristretto, ma vincente pensiero strumentale di grossisti dell’anima. Non diversamente, Aléxis de Tocqueville intuì nella mentalità americana i pericoli di una tirannide della maggioranza, della quantità, ai danni delle minoranze, dei dissenzienti, della qualità. Sostenne che via via che i cittadini diventano più simili, aumenta la disposizione ad identificarsi nella massa e a credere in essa, e quindi il pubblico “viene a godere di un singolare potere: non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone attraverso una gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelligenza di ciascuno.” L’opinione è manipolata dall’alto, ma l’americano, e da tre generazioni anche l’europeo, non guarda all’insù, ma esclusivamente alla greppia, al soddisfacimento immediato di piaceri volgari pagabili in moneta. 

Prosegue Tocqueville: “quando negli Stati Uniti, un uomo o un partito subisce un’ingiustizia, a chi volete che si rivolga? All’opinione pubblica? È essa che forma la maggioranza e la serve come uno strumento passivo; alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi; alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di pronunciare sentenze: i giudici stessi, in certi Stati, sono eletti dalla maggioranza In America, la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. Resterai fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all’umanità. Io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.”

Migliaia di pagine non avrebbero spiegato meglio lo spirito americano, il cui obiettivo è la riduzione all’Unico di tutto il mondo. Di un libro, un’arte, un’idea, conosce solo il Bignami, l’abstarct.  La sua ossessione è misurare tutto; di qui la passione per la statistica, la tassonomia, i bilanci, così utili per l’eroe a stelle e strisce, l’uomo che si fa da sé e avanza verso il successo, il cui metro è il dollaro. E’ comunissimo nella conversazione indicare il prezzo degli oggetti più insignificanti. Lo scrivente ricorda l’impressione che gli fece un film in cui un serissimo professore si lamentava dei danni al suo “soprabito da cinquecento dollari”. Delle più grandi creazioni artistiche, egli conosce soprattutto il valore venale, persuaso dell’opinione interessata di mercanti ed esperti, i suoi beniamini.

Stupisce la fascinazione per chi è famoso, indipendentemente dalle motivazioni, attore, fuorilegge o scienziato. La famiglia Dillinger, dopo l’uccisione del gangster di Chicago, si esibì con successo nei teatri. Tutto tende a dare una forma quantitativa al pensiero. Se l’americano domanda il valore di un uomo, intende il valore materiale, e si irrita di ogni altro sistema di apprezzamento. La soluzione dei problemi che propone è sempre quantitativa. Questo vale anche per la guerra, in cui la strategia americana non si basa sul valore militare o la proporzionalità, ma sul gigantesco dispiegamento di mezzi.

Convinto della sua superiorità etica, fervido sostenitore del modo di essere Usa, lo vuole imporre, a fin di bene, al mondo intero. La santificazione della libertà all’americana conduce ad una vita massificata fino a perdersi nel conformismo, nella moda, nel regno dell’indifferenziato e della quantità. Dalla fine della seconda guerra mondiale, vinta con la potenza delle armi, l’americanismo dominante ha trasformato l’Europa in Occidente e poi in periferia colonizzata. Ha imposto modelli economici, standard esistenziali a comunità intere. L’american way of life si è stabilito, deposti ma non abbandonati gli strumenti bellici, come incontrastato dominio finanziario, militare, industriale, tecnologico, ma innanzitutto come modello teso a costruire un nuovo tipo umano indifferenziato, relativista, interessato solo alla ricchezza, all’avere, al successo. Il suo rozzo vitalismo è esclusivamente materiale, quasi zoologico.

Il segno dei tempi, per René Guénon, è l’avvento del regno della quantità. Attraverso l’egemonia dell’americanismo, ci annientiamo con gioia, demograficamente, culturalmente, spiritualmente. Una morte gaia, un funerale alle luci del varietà. Il trionfo del femminismo rancoroso, del libertarismo, il potere assoluto del mercato, della forma merce, del multiculturalismo, dell’omologazione planetaria, di tutto ciò che è misurabile in dollari sono pericoli più rovinosi del terrorismo o della dipendenza dal petrolio. Ci hanno assorbito, mangiato le carni, hanno comprato per quattro soldi la nostra anima come Mefistofele con Faust, ci hanno venduto a caro prezzo un posto in galleria nello spettacolo da loro allestito. Meraviglia la nostra smania di sottomissione, adorazione e deificazione dell’America.

Tempo amorale in cui le azioni della Boeing triplicarono nonostante uno scandalo che la vide protagonista, segno che vogliamo tenacemente schiantarci, ipnotizzati dagli Usa. Tempo in cui sostituiamo le nostre feste con quelle di provenienza americana, Halloween al posto dei Santi e dei Morti, in cui ci mettiamo in fila per gli sconti del cosiddetto Black Friday, il venerdì nero imposto da Amazon. Tempo in cui abbandoniamo la lingua nativa per esprimerci in un ridicolo globish, l’inglese da aeroporto, parente assai lontano della lingua di Shakespeare. Il mondo moderno di osservanza americana è allucinatorio, confonde reale e virtuale; adora come i selvaggi di Colombo le perline luccicanti vendute in cambio di oro dai conquistatori colonizzatori d’Oltreoceano.

Nell’industria, l’America non si interessa che alla produzione di serie, il cui gusto livellato in basso impone alla clientela di massa per coazione a ripetere pubblicitaria intrecciata con la svalutazione, l’aperta irrisione dei modelli fondati sulla qualità. Le interessa soprattutto fomentare l’invidia, il desiderio di possedere ciò che i vicini hanno già. Non c’è posto per l’essere, ma solo per il primato, l’immensamente grande. Invariabilmente, uno spettacolo, un edificio, una realizzazione tecnica è la “più grande del mondo”. Le forme di vita della società che impronta sono tecnomorfiche, sostituiscono l’organico con il meccanico, con inevitabile materializzazione dei rapporti sociali. In un paese in cui l’eterogeneità è un elemento costitutivo, il consenso non può costituirsi che intorno a cose materiali, ai consumi, al possesso.

Mito ideale è il melting pot, il pentolone che ribolle e cambia continuamente colore, gusto, aspetto. Il consenso si raduna sull’acquisto dei beni costitutivi dello status sociale. Nella scelta dei rappresentanti, il principio di qualità è aborrito: il senatore, il governatore, il presidente devono essere “come tutti gli altri”. Per questo giocano con il pubblico, si mostrano in salotto o con il cagnolino. L’americano si insospettisce immediatamente se avverte la superiorità di un candidato. Non lo capisce, quindi non lo vota. Tutto ciò è rapidamente transitato in Europa. Nonostante le tendenze isolazioniste che attraversano la storia americana, gli Usa sono sbarcati in Europa con la prima guerra mondiale. Vincitori, hanno imposto una narrazione in cui figurano invariabilmente come liberatori, agenti del Bene in lotta con il Nemico. Condividono con i comunisti il disprezzo per tutto ciò che è nobile, elevato, ed il bisogno di opporsi non ad avversari, ma a malvagi, empi, incarnazioni del male.

Si è poco riflettuto su un dato storico della vicenda americana: gli Usa nascono dal rifiuto dell’Europa dei Padri Pellegrini e successivamente dall’abbandono del Vecchio Continente di decine di milioni di europei che, lasciate le rispettive terre per cercare fortuna, ripudiavano le origini, trasformandosi in perfetti neo-statunitensi. E’ americano il detto che la patria è dove si appende il cappello. Del resto, la parola patria non esiste in inglese: country, paese, tutt’al più people, la gente, massa da misurare aritmeticamente, una somma da valutare in termini di equivalenza, economia di scala, propensione al consumo.

L’immensa fortuna americana di Freud e della psicanalisi si spiegano con il rifiuto delle culture di provenienza di milioni di deracinés, sradicati, animati da un livido spirito di rivalsa nei confronti delle terre native. E’, né più né meno, l’assassinio del padre, fondamento della costruzione freudiana. Altro idealtipo è quello del vincente, non importa con quali mezzi. Bisogna competere, schiacciare l’avversario per guadagnare, “avere successo”. I perdenti non hanno cittadinanza, a nessuno importa del valore o della giustezza della causa.      

L’americanismo è la termite che ci divora; compra l’anima, ma fa di peggio. Vende il surrogato e butta l’originale. Il giudizio, per altri aspetti ingeneroso, di Spengler sull’impero romano si attaglia moltissimo al successo dell’America, imperialismo senza imperium. “Che i romani non abbiano conquistato il mondo è certo; hanno semplicemente preso possesso di un bottino aperto a tutti. L’Imperium Romanum non fu creato a seguito di sforzi militari e finanziari estremi come quelli che avevano caratterizzato le guerre puniche, ma perché l’antico Oriente rinunciava a ogni autodeterminazione esterna. L’aspetto di un brillante successo militare non deve ingannarci.”.

La resa dell’animo europeo, iniziata nella carneficina della prima guerra mondiale, è proseguita a ritmo accelerato dopo la seconda, assumendo dal 1989, liberazione dal comunismo e scatenamento degli spiriti animali del capitalismo amerikano, i caratteri di una Caporetto dello spirito, una sconcertante volontà di impotenza, un’ansia di distruzione, un cupio dissolvi che sarà oggetto di studi degli psicologici del futuro, più che degli storici e dei sociologi.

C’è una natura negativa, regressiva, profondamente anti europea, nello spirito americano. Non intendiamo alimentare nessun rancore o volontà di rivalsa nei confronti di quel popolo. Gli Usa hanno il diritto di vivere secondo i principi e l’organizzazione sociale che preferiscono. Non dobbiamo invece accettare che la loro agenda politica, economica, tecnologica, culturale, valoriale ci sia imposta. Dobbiamo organizzare una resistenza, ricostruire argini, restituire l’Europa a se stessa. Parafrasando Niccolò Machiavelli, vogliamo mostrare che a qualcuno ancora “puzza questo barbaro dominio”, non morire da coloni, servi di un mondo estraneo.

Osiamo affermare che la visione della vita americana, la sua way of life è un’infezione a cui vanno opposti anticorpi, a cominciare dalla denuncia dell’inquietante regno della quantità diventato senso comune, orizzonte unico entro un sistema politico neo liberista, dichiarato privo di alternative senza prove e nel divieto del contraddittorio. Di là dell’Atlantico, amano le sigle, gli acronimi. Uno è TINA, there is no alternative. Falso, a ogni sistema, a qualunque regime o pensiero vi è sempre un’alternativa. Acronimi: l’impero della semplificazione. Solo in America gli esseri umani potevano essere ridotti alle iniziali, espropriati del nome. Ricordate J.R., l’eroe televisivo di Dallas, O, J. Simpson e tanti altri? Derubricati a sigla, come i numeri di matricola dei prigionieri o i codici a barre dei prodotti del supermercato.

Quantitative sono in America anche le scienze dello spirito. L’unica filosofia prodotta negli Usa è il pragmatismo, pensiero pratico per il quale conta il risultato delle azioni. La psicologia, con John Watson, ha partorito il comportamentismo (behaviorism), la convinzione che nulla vi sia di innato e ogni condotta sia determinata dall’ambiente. In sociologia, più che le analisi, valgono le statistiche, la capacità di prevedere comportamenti di massa, nella prospettiva dello sfruttamento economico.

L’uomo americano occorre che abbia, non che sia. E’ un homo dollaricus, interessato spasmodicamente alle speculazioni di borsa, al guadagno facile, poiché l’obiettivo della vita è fare soldi, to make money. Questa, infine, è la ricerca della felicità posta nella costituzione, un testo in cui si afferma che tutti gli uomini nascono liberi, redatto da diversi proprietari di schiavi. Lo stesso primo presidente, George Washington, ne possedette per tutta la vita. Un altro tratto dell’americanismo è l’ipocrisia, il moralismo da quattro soldi, virtù pubbliche e mano sul cuore, comportamenti opposti. In America è stato inventato un modello matematico chiamato preda-predatore (equazione di Lotka-Volterra), utilizzato in alcune analisi economiche, il cui senso non necessita spiegazioni.

L’idea di eguaglianza che rifiuta programmaticamente ogni distinzione qualitativa è alla base dell’intera vita americana, ma non sposta di un centimetro l’enorme (e crescente) disparità di reddito che affligge decine di milioni di americani poveri. I rapporti sociali, in un universo di differenze tanto grandi, non possono sfociare in un’appartenenza collettiva, se non nella riduzione allo stato di macchine che il cinema colse fin dal 1927 con Metropolis, diretto da Fritz Lang, che era però viennese e da Charlie Chaplin, europeo anch’egli, in Tempi Moderni (1936).

Convinto paladino della libertà, che non definisce se non come assenza di vincoli e opportunità di arricchirsi, l’americano è un essere “fisicamente libero, ma psicologicamente e spiritualmente schiavo “ (Tocqueville). Il dramma è il fascino indiscutibile che l’americanismo esercita sulle menti cresciute nel culto della materia, del progresso “tecnico”. E’ l’ideologia della modernità e – nella dimensione mercificata del consumo individualista, del soggettivismo e dei diritti civili sostituti della giustizia sociale – della post modernità.

Funziona, ma consuma corpi e anime; convince di vivere non nel migliore dei mondi, ma nell’unico. E’ la versione contemporanea, soffice, del totalitarismo. Scrisse Tommaso d’Aquino: timeo homines unius libri, temo gli uomini di un solo libro. Chissà che avrebbe pensato di un popolo, di un senso della vita impadronitosi di tutti noi, che non è “di un solo libro”, ma della sua riduzione a riassunto, massimo centoquaranta caratteri, come i messaggi di Twitter.     

 

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