APPROFONDIMENTI: L’inverno del nostro scontento
Lo dicono gli psicologi con toni allarmati, lo ripetono i sociologi, lo osserviamo tutti nell’esperienza quotidiana: l’inverno del Covid ha effetti terribili. Dall’inizio dell’epidemia, ogni giorno un ragazzo ha tentato il suicidio. La chiusura delle scuole ha effetti devastanti per generazioni che hanno perduto da tempo la lezione della strada, della comunità dei coetanei, del vecchio oratorio. Stiamo consumando una generazione, un’altra. Molti giovani finiscono nell’ autolesionismo, l’assurdo balsamo che cura le ferite dello spirito trasferendole sul corpo.
Aumentano i casi di ansia e depressione; psicologi e psichiatri hanno più lavoro dei virologi. Crolla l’indice dei matrimoni – non solo per le difficoltà pratiche – conquista nuovi primati la denatalità; i ginecologi segnalano una diminuzione a picco delle gravidanze. I divorzi, in compenso, schizzano alle stelle. Segni tutti di sfiducia, paura, disgregazione del tessuto morale, sociale e comunitario. Non parliamo del dramma di imprenditori e dipendenti che perdono il lavoro e con esso la speranza. Dovunque, si vive in confusione, in una bolla di precarietà e silenzio. Piaghe prodotte da una società superficiale che perde in profondità ciò che – apparentemente- guadagna in estensione.
La solitudine produce nuova incomunicabilità; il prossimo, il vicino, il collega diventa un nemico, un problema, un possibile veicolo di contagio. La società si è dissolta, la comunità è spappolata. Temiamo che sia uno degli obiettivi della grande cancellazione, il Reset al tempo del virus che sta ribaltando le nostre vite. E’ l’inverno del nostro scontento e non si vedono indizi di un’estate gloriosa in cui “tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano”, l’incipit del Riccardo III. E’ piuttosto l’inverno del nostro scontento del romanzo di John Steinbeck, la vicenda di un ex ricco che ha perduto la fortuna degli antenati. Finito in un giro di imbrogli e traffici che lo condurranno sull’orlo del suicidio, è prigioniero di una crisi morale senza scampo.
Dall’alto, ci dicono che siamo colpevoli, siamo noi, il popolo, i responsabili di tutto. Si scopre che ci divertiamo oltre i nostri mezzi, così come ci eravamo indebitati oltre i nostri mezzi. Il messaggio è suicidario: levatevi di mezzo, possibilmente in silenzio. Colpevoli, sconsiderati, non ascoltiamo i moniti della Scienza che è venuta a salvarci, specie da noi stessi. La vigilanza dei superiori serve a tenerci legati, sottometterci alle direttive dei guaritori paternalisti e gentili, del nuovo clero, non più religioso o intellettuale, ma scientifico. Il vero sacerdozio della postmodernità, la cui verità nessuno osa sfidare. Le voci dei medici esigono la reclusione sanitaria, igienica e pedagogica. L’unica verità che ci salverà dalla morte e ci trasfigurerà in cittadini esemplari, soggetti emancipati da ogni superstizione, docili, illuminati dalla luce sfumata della Verità, obbedienti alla voce della Ragione per il nostro bene.
L’istruzione online consente di eliminare gli insegnanti. La relazione maestro – allievo è sostituita dal tutorial, il testo o video di spiegazione e addestramento all’uso di dispositivi o programmi. Così possiamo mantenere la distanza salvifica, senza respirarci addosso come bestie feroci, come cani in calore, animali d’altri tempi: manipolatori distaccati, discreti e silenziosi di applicazioni, app. Separati per non costituire masse pericolose, organismi in ribellione. Infelici e avvizziti, forse salveremo la pelle, poiché – lo ripetono con pazienza orientale- il bene più prezioso è la vita, anche se solitaria, ignorante e miserabile. Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio fu il grido di selvaggi d’altri tempi. Razionalisti spaventati, abbiamo concluso che è meglio vivere, vivere prima di tutto, sopravvivere. Non funziona, non basta: dalle strade vuote si sente pianto e digrignare i denti.
Si vive in trance, quasi in letargo. La vitalità sfuma nella debolezza psichica, nell’attesa e nell’immobilità. Milioni di Oblomov trascinano l’esistenza nell’ inerzia, stanchi, insensibili ai rumori della vita. La differenza, rispetto all’eroe dell’ozio, è la paura. Un sociologo dell’esperienza di Giuseppe De Rita afferma di vedere un popolo in trance “che preferisce rintanarsi nel mondo sicuro del se stesso”. Domina una strisciante, opaca incertezza autocentrata, diversa però dal cogliere l’attimo, il carpe diem che è azione, voglia di mordere la vita. E’ lontano il mondo di “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”, sostituito da un’immobilità impaurita che trattiene il respiro. Su tutto, lo sguardo torvo di chi vede nell’altro il pericolo e si blocca, Oblomov ostile.
La silenziosa decisione collettiva è quella del letargo. Nessun impegno, nessun domani: mancano gli obiettivi. Si fa come gli orsi: nella tana, assopiti ad aspettare la primavera, incerti se verrà. Alla pandemia, alle decisioni, a tutto, ci pensi qualcun altro. Una conseguenza dello scontento è l’irresponsabilità, l’accidia, il più misterioso dei peccati capitali, l’avversione all’agire, mista a noia e indifferenza. La vita al tempo del virus ci ha trasportato in una bolla di comportamenti coatti decisi da un’autorità lontana e onnipotente. Una vita amministrata, eterodiretta dal biopotere che fa prigioniero il corpo e espugna l’anima, lasciandovi il vuoto. La potenza tecnica comunica senza informare, dissuade, impone la mascherina, nuova divisa dell’internato a cielo aperto, (un ossimoro in più) dovere del riconoscimento collettivo. Si vive alla giornata, senza obiettivi, senza progetti, abolendo il futuro in nome dell’esistenza in vita.
Cent’anni di solitudine, ecco la vita che ci prospettano, senza l’energia vitale della famiglia Buendìa, protagonista del romanzo di Garcìa Màrquez. Il destino a cui la Grande Cancellazione ci assoggetta è una mutazione non antropologica, ma ontologica: da essere sociale ad animale solitario, da fabbro del proprio destino a pedina mansueta di decisioni estranee, da creatura aperta alla vita, fatta di anima, corpo e spirito a massa animale il cui unico istinto è la sopravvivenza. Colpisce il silenzio della Chiesa, ripiegata a sua volta in un inverno senza la fiamma che scalda e rigenera la circolazione del sangue.
E’ una stagione di ghiaccio che, comunque termini la lunga parentesi del virus, lascerà strascichi immensi. L’animale asociale chiamato uomo si sta assuefacendo a vivere nel vuoto, pervaso da un timore sordo, dal fastidio per i suoi simili, chiuso in un rifugio a una piazza con a disposizione gli apparati artificiali, surrogati della realtà e della socialità. Nulla di strano se avanza la depressione, se la vicinanza non è un sollievo ma una minaccia che atterrisce e fa prorompere nell’urlo angosciato che Edvard Munch ha dipinto in varie tonalità di colore. La città dell’uomo non è più la polis affollata, familiare, luogo dell’incontro, ma lo spazio urbano desolato di Giorgio De Chirico, sgombro, metafisico perché disumanizzato.
In quegli spazi non si muove alcuna comunità, né si indovina una società. Somiglia al Panopticon, l’invenzione di Jeremy Bentham, il carcere ideale in cui il sorvegliante può vedere i detenuti senza che essi sappiano se sono osservati o no. L’incoraggiamento della delazione, il senso di essere sotto lo sguardo di chiunque, potenzialmente nemico, sta inverando l’idea del potere come dispositivo, macchina davanti alla quale il singolo è nudo, indifeso, monade senza importanza, il cui unico patrimonio è la vita biologica. E’ oltrepassato lo stesso Bentham, materialista ed utilitarista, per il quale fondamento della morale e della legge era la maggiore felicità del maggior numero di uomini.
Il lungo inverno infelice ci introduce nella morale degli schiavi, dominata dalla paura. Settant’anni fa, Ernst Junger, nel Trattato del Ribelle osservava che la paura è uno dei sintomi del tempo. “Tanto più suscita costernazione in quanto è succeduta a un’epoca di grande libertà individuale”. L’autore dell’Operaio e Nelle tempeste d’acciaio individuava l’alba della paura nella data in cui affondò il Titanic. Oggi, in forme diverse di fronte a un nemico invisibile, si verifica la medesima collisione di luce e ombra: “l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione “. Tutte le paure umane sono figlie del terrore primigenio, quello della morte. Su di essa lavora il biopotere, dopo aver scacciato la speranza trascendente che sostenne per millenni l’uomo con lo sguardo levato in alto, verso la città di Dio, ridicolizzato il senso eroico della vita, la continuità attraverso il succedersi delle generazioni, il sacrificio di sé, la nobiltà di vivere e morire per qualcosa o qualcuno. L’inverno del nostro scontento non diventerebbe angoscia se gli uomini possedessero ancora fedi e ideali. Il Grande Reset è già realizzato nel cuore disabitato e disanimato dell’umanità d’Occidente, terrorizzata dal tramonto.
In questi mesi, abbiamo ripensato all’universo di Ingmar Bergman, il grande regista cinematografico svedese, in particolare al Settimo Sigillo e al Posto delle fragole. Il dialogo tra il Cavaliere e la Morte, temiamo non dica più nulla all’uomo contemporaneo, che si tapperebbe le orecchie e chiuderebbe gli occhi. Non è tempo di Cavalieri dallo sguardo diritto: “Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo volto, mi parli.” La risposta della Morte lascerebbe indifferente l’odierno uomo in trance, non lo risveglierebbe dal letargo narcotico: “il suo silenzio non ti parla? “No, non ci parla e se lo facesse, ci sembrerebbe un balbettio incomprensibile. Siamo ben oltre il lucido, attivo nichilismo dello scudiero Jons. “In queste tenebre dove tu affermi di essere, dove noi presumibilmente siamo, in queste tenebre non troverai nessuno che ascolti le tue grida o si commuova della tua sofferenza. Asciuga le tue lacrime e specchiati nella tua stessa indifferenza. “
Il posto delle fragole, che in Svezia rappresenta il sospirato ritorno della primavera dopo l’interminabile inverno, è una meditazione sulla vita e la morte, rimpianto per le occasioni perdute attraversato dal tema delle maschere che l’uomo indossa per risolvere le sue crisi. Il personaggio più vitale è la madre novantenne del protagonista, ancora forte, ma abbandonata dai numerosi figli e nipoti. Quanti rimpianti si stanno accumulando in questo tempo sospeso, quante nuove solitudini si aggiungono a quelle passate. Ma l’uomo di oggi ha ancora la voglia e gli strumenti morali e spirituali per riflettere, ripiegato nell’ansia e nel distanziamento dai suoi simili? Il posto delle fragole, la primavera, non finiranno per sorprenderci nella terra guasta, nel paesaggio inaridito?
Fu il tema di Thomas S. Eliot nella prima parte della Terra desolata, La sepoltura dei morti. “Aprile è il più crudele dei mesi, genera lillà da terra morta, confondendo
memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera. L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse con immemore neve la terra, nutrì con secchi tuberi una vita misera.” L’incubo – quest’incubo- finirà, la domanda è come ne usciremo. Nel letargo, confusamente sogniamo e speriamo. Poi, arriverà il risveglio e saremo disillusi, egoisti, invecchiati. Nel frattempo, la Grande Cancellazione avrà fatto passi giganteschi e molti sopravvivranno da stranieri in un mondo incomprensibile. Soprattutto gli anziani, ma non andrà meglio ai giovani a cui è stata espiantata linfa vitale, entusiasmo, voglia di misurarsi con le sfide, rischiare.
Il desiderio di sicurezza-o la sua illusione- avrà prevalso sulla libertà e una mansuetudine assonnata si sarà impadronita del gregge. Sarà la vittoria capovolta dell’uomo a una dimensione, travolto dalla tolleranza repressiva della società amministrata, in cui prevale una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà, segno del progresso tecnico. Nel futuro prossimo, il Reset, l’azzeramento darà luogo a un nichilismo di massa di cui vediamo i segni nell’accecamento della sopravvivenza individuale minacciata dal virus. Si realizza sinistramente l’anomia tematizzata da Emile Durkheim. Anomia è assenza di regole e principi comuni. La persona, diventata individuo, vive una condizione di incertezza e indeterminazione che diventa anomia: perdita di comportamenti e legami solidali, carenza di relazioni in cui sussiste impegno reciproco.
Oggi l’anomia è generalizzata per l’assenza di principi e di coscienza collettiva, a partire dal mondo del lavoro in cui si sono diffuse modalità come telelavoro che allontanano gli uni dagli altri. Ogni relazione è improntata alla distanza, al contrasto e alla competizione. Divide et impera, con in più la solitudine esistenziale di atomi incapaci di empatia. Prima o poi, si estenderà la nostalgia – dolore della mancanza – per la comunità, la prossimità; tornerà il desiderio di tornare alla natura, che è verità, origine. L’essere umano è un animale sociale che per vivere ha bisogno di vicinanza, sentire il respiro dell’altro, ascoltare, tendere e stringere le mani, immaginare e realizzare progetti collettivi, ridere e piangere insieme agli altri uomini.
Questa mancanza è probabilmente il motivo dell’inverno esistenziale che ci stringe, dello scontento e della paura che diventa terrore, angoscia insopportabile se non è affrontata ed esorcizzata con miti, gesti, credenze e speranze collettive. Il Salmo 10 si chiede: quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare? Difficile dire all’arida umanità del freddo inverno che la risposta non è la Scienza, ma riprovare a credere, nonostante tutto, al versetto successivo: il Signore sta nel suo tempio santo, il Signore ha il trono nei cieli.