APPROFONDIMENTI: la trincerocrazia, mito fondativo di una nuova gioventù
La Grande Guerra, l’evento che ha mutato per sempre la storia, l’Europa, il mondo. Milioni di uomini ammassati nei solchi luridi delle trincee, tra filo spinato, mortai e bombe a mano, a sacrificare anima e corpo per quei seicento chilometri di terra che vanno dalle Dolomiti all’Adriatico, per quella terra impastata di sangue, grida e sudore, sconvolta per anni dai boati dei cannoni e dal “ta pum” dei fucili nemici. Fino ad allora il più grande massacro dell’umanità. Ma oltre il sangue, la tragedia, le vite spezzate, un qualcosa si elevava come un canto, un’esplosione, al di sopra di tutto; la volontà.
Il volontarismo è certo un fenomeno complesso, esso non può esaurirsi nel gesto bellico dei milioni di soldati in sé, considerato anche che la maggior parte di coloro che lasciarono la casa, la moglie, la madre, i figli e una vita tranquilla, furono “mandati” al fronte, e pochi soltanto invece furono colti da un precoce sentimento di volontà d’azione e di riscatto. Se è vero come è vero però che la coscienza si esplica soprattutto nella volontà, nella sua attività pratica e creativa, allora essa si esprime nell’immediatezza, non può essere razionale, ragionata, frutto di calcolo o riflessione, essa è immediata, spontanea e improvvisa. Il sacrificio eroico del popolo italiano è impregnato di volontarismo, poiché posto di fronte ad una contingenza diversa da quella della comodità quotidiana, esso è riuscito in imprese inimmaginabili e grandiose, e in questo sta la cifra dell’opera di nazionalizzazione delle masse operata dalla Grande Guerra.
Uomini provenienti da tutta la Nazione, legati sì da un “fil rouge” comune, da una continuità storico/culturale reale, ma che si scontrava con secoli di divisioni, campanilismi, dialetti e modi di fare distanti. Il fragore della guerra ha unito il popolo, nella trincea si è formata la Patria. Non esistevano più piemontesi e siciliani, toscani e lombardi, bolognesi e napoletani, ma solo italiani, solo camerati, parola di sintesi e di elevazione, fratelli non di sangue ma di spirito e di condizione. In questo crogiuolo di sacrificio, coraggio, volontà e arditismo, si formò una nuova élite, un’aristocrazia guerriera venuta fuori direttamente dalla gerarchia della trincea, la trincerocrazia.
“La trincerocrazia è l’aristocrazia della trincea. È l’aristocrazia di domani. È l’aristocrazia in funzione. Viene dal profondo. I suoi «quarti di nobiltà» hanno un bel colore di sangue. Nel suo blasone ci può essere dipinto un «cavallo di Frisia», una fossa di trincea, una bomba a mano.” – scriveva Benito Mussolini in un articolo pubblicato su Il Popolo d’Italia il 15 dicembre del 1917.
Nella storia i grandi mutamenti sono passati sempre attraverso i grandi conflitti. Era chiaro, i segnali si avvertivano, i presupposti erano già nell’aria. Laddove si era formata la nuova aristocrazia, erano venute meno le differenze sociali, quelle culturali, i rapporti di forza presenti nella società liberale. Che questa massa di uomini non si sarebbe seduta comodamente alla finestra era chiaro ai più svegli, la questione fu invece sottovalutata dalla miopia dei fautori dei vecchi schemi.
Scriveva ancora Mussolini nel medesimo articolo di cui sopra:
“C’è una nuova aristocrazia in vista. I miopi e gli idioti non la vedono. Eppure, questa aristocrazia muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di «presa di possesso» delle posizioni sociali. È un travaglio oscuro, intenso, di elaborazione, che ricorda quello della borghesia francese di prima dell’89.”
Vinta la guerra e persa la pace, i reduci, i mutilati, gli invalidi non si riconobbero più in una società che li aveva traditi, relegati ad un ruolo marginale, sconfessati, privati della vita, della gioventù, e finanche della riconoscenza. Una società liberale, vecchia, fatta di poltrone, accordi, affarismo e parlamentarismo, mal si confaceva alla nuova aristocrazia, a coloro che “lì c’erano stati”, che avevano sopportato la trincea, e nella trincea avevano operato una trasformazione addirittura antropologica. I rapporti sociali non erano più fondati sull’utilitarismo, sulla convenienza economica e materiale, ma sulla qualità umana, sul coraggio e sulla volontà espressi sul campo di battaglia. I tratti somatici addirittura, i comportamenti, i modi con cui si ragionava sulla prassi non erano quelli della borghesia liberale, ma quelli di coloro che avevano interiorizzato la guerra, e si sentivano in diritto e in dovere di dare un impulso decisivo alla ruota della storia.
In questo contesto la trincerocrazia divenne, sulla medesima guisa dell’arditismo, vero e proprio mito fondativo di una nuova gioventù rivoluzionaria, la quale fu inquadrata dalla storia, e con Mussolini partecipò alla costruzione di una nuova società, e quindi di un uomo nuovo – non è un caso che Mussolini elevi la data del 24 Maggio a data di inizio della rivoluzione fascista – Una nuova società fondata sui valori del sacrificio, della comunità, dell’amor di Patria, e della volontà. Un uomo nuovo che fosse lavoratore, soldato, cittadino esemplare, che non ragionasse in termini utilitaristici ma spirituali, un uomo che fosse pronto ad affrontare le sfide di un’Europa incredibilmente cambiata e non più propensa a sopportare il “pietismo” l’umanitarismo d’accatto, lo sfruttamento, l’affarismo di certi vecchi e sbiaditi liberali dall’animo borghese.
Qual è può essere il significato politico oggi del volontarismo e della trincerocrazia? Facendo il confronto (operazione blasfema storicamente parlando) tra la gioventù di allora e quella odierna, forse potremmo affermare che parte della responsabilità della situazione di smarrimento, abbrutimento, nichilismo più tetro, nella quale versano i millennials, sia dovuta alla mancanza di un mito fondativo, o perlomeno all’esaurimento della missione storica che ha avuto e sta avendo quello esistente.
Viviamo ancora in una società “partorita” dal 25 Aprile, mito fondativo dell’Italia repubblicana, integrato e amplificato poi con quello del ’68 e dell’89, i quali ci hanno proiettato nella post-modernità. Non abbiamo avuto il grande conflitto, non abbiamo vissuto niente di paragonabile al sacrificio della trincea, credo però che a questo punto sia necessario recuperare i valori che erano alla base dell’azione di quella gioventù, non per tentare una strana operazione antistorica, bensì per far collimare le necessità dell’oggi con il mito mai tramontato dello stato, del popolo e della Patria.