APPROFONDIMENTI: Magistratura, l’orrore e il timore
La realtà supera sempre la fantasia, anche nella scelta dei tempi. In questi giorni la Chiesa cattolica ha elevato agli altari Rosario Livatino, giovane magistrato agrigentino ucciso dalla mafia nel 1990. Fervente cattolico, esemplare per moralità e rettitudine, combatté la mafia e il crimine senza dimenticare mai la dignità della persona, perfino quella dei peggiori criminali. Davanti ai suoi assassini, manifestò lo stupore, la meraviglia dei buoni posti di fronte al mistero dell’iniquità: picciotti, che cosa vi ho fatto? chiese ai suoi sicari. Sereno, schivo, riservato, lontano dalle luci della ribalta, morì all’inizio di una carriera che, probabilmente, non sarebbe stata brillante, alieno com’ era ai gruppi di potere, alle “cordate” e all’ ideologizzazione del suo ruolo.
Contemporaneamente, il prestigio della magistratura italiana crolla di giorno in giorno. Il caso Palamara, le lotte di potere e di casta, l’incredibile vicenda della loggia Ungheria – rivelata o millantata – da un avvocato d’affari, un faccendiere pregiudicato con le entrature “giuste”, la vicenda dei verbali relativi passati “ irritualmente “ di mano in mano tra magistrati di vertice e membri del Consiglio Superiore della Magistratura – un organo detto “ di autogoverno” che somiglia a un nido di vipere –le smentite reciproche in diretta televisiva ( !!!) tra Pier Camillo Davigo e Sebastiano Ardita, membro anch’egli del CSM, mostrano l’altra faccia della medaglia. Che è purtroppo quella più vera. Non vogliamo perdere tempo affermando che nei ranghi di giudici e procuratori ci sono funzionari brillanti, onesti e coraggiosi: è certamente così, come in ogni altra categoria professionale. Il fatto è che prevalgono gli altri, gli intriganti, gli uomini e le donne di potere, gli esibizionisti, alcuni mestatori e veri e propri agitatori politici.
Nessuno stupore: in una nazione infetta, in un’epoca avvelenata, perché dovrebbe essere un’oasi di onestà, diritto ed equilibrio proprio la magistratura, ovvero l’ordine professionale che esercita l’immenso potere di indagare, accusare, giudicare, tenere nelle mani la libertà, l’onore, gli interessi, la rovina dei cittadini? Eppure, ogni episodio di cui si viene a conoscenza, ogni nuova tessera di un mosaico umiliante, colpisce come un pugno al fegato chi ha ancora a cuore la funzione pubblica e la dignità della funzione giurisdizionale. Apprendiamo di lotte intestine senza esclusione di colpi, veleni, incontri riservati, trappole, complotti reciproci, intercettazioni, guerre per occupare certe funzioni – soprattutto quelle di pubblico accusatore- che dovrebbero non stupire, ma indignare. Non è così, purtroppo, in una nazione in cui tutti invocano l’onestà senza praticarla, in cui ciascuno è pronto a giustificare le proprie marachelle nel momento stesso in cui punta il dito contro le disonestà altrui.
Non abbiamo opinioni nel merito degli ultimi fatti, e non pensiamo affatto di essere di fronte a una lotta tra buoni e cattivi. Ciò che proviamo è insieme orrore e timore. Il timore è quello dell’uomo comune, inesperto dei riti e delle procedure di un mondo alieno, che rabbrividisce all’idea di essere trascinato nel fango, magari per un errore e per un “teorema” montato da qualcuno. Il timore, ad esempio, di essere attore o peggio convenuto di una causa in cui conta più lo schieramento politico nostro e di chi indaga e giudica rispetto ai fatti, l’interesse mediatico oppure il risvolto in termini di potere e carriera della vicenda che ci riguarda.
Per noi è questione di ragione e di torto, di giustizia, di libertà, di rovina economica e sociale, per “loro”, per qualcuno di loro, è solo una pratica da esaminare con le lenti dell’opportunità, dell’ideologia, dei processi da istruire, della condanne da ottenere, peggio ancora delle guerre tra colleghi appartenenti a “partiti” interni alleati o avversi, degli avanzamenti professionali. Aveva ragione la nonna, artigiana di modestissima istruzione, che intimava di “stare lontani dalla giustizia”. Ce la mettiamo tutta, ma, ahimè, non dipende dalla nostra condotta. Di qui il timore, quello che prende allorché si varca, magari per motivi professionali, il portone dei palazzi di giustizia e, di colpo, ci si sente piccoli piccoli, pedine di un meccanismo sconosciuto e ostile, simile al Processo di Kafka.
Al timore si affianca talvolta l’orrore. Ricordate Cuore di tenebra, il romanzo di Joseph Conrad? Nella fascinazione per l’Africa sconosciuta, nei racconti su Kurtz, strana figura di cercatore d’avorio che schiavizza le popolazioni locali, lo scrittore ci ricorda che non vi è poi troppa differenza tra la violenza primordiale, tenebrosa, degli uomini gettati nel cuore della foresta e il mondo ovattato di Londra, orgogliosa capitale di un impero. Alla fine Kurtz, evocato per l’intero romanzo, si rivela per un malato ormai morente, distrutto dalla sua stessa avidità; le sue ultime parole, forse riferite al suo passato, sono “l’orrore, oh, l’orrore”.
In fondo, Kurtz è un figlio del suo tempo – Cuore di tenebra fu pubblicato nel 1899 – e in un angolo dell’anima, mantiene ancora il senso morale appreso e finisce per estendere a se stesso il giudizio di orrore sui suoi atti e sulla società che li ha determinati, accettati e utilizzati. Ma oggi? Il timore- che conduce all’orrore – è che l’intera società abbia perduto ogni ancoraggio etico e che tale deriva si sia propagata alla funzione giudiziaria. E’ recente l’arresto di un GIP (Giudice delle Indagini Preliminari) arrestato per aver “venduto” la libertà accordata a incalliti delinquenti. Un corrotto, se le indagini dimostreranno la veridicità delle accuse. Ma ci fa altrettanto orrore il giacobinismo allucinato da vendicatori di tutti i mali del mondo di certi Robespierre in toga.
Pensiamo alla brillante, finissima mente giuridica di Pier Camillo Davigo, messa al servizio del principio che enunciò anni fa: non esistono innocenti, solo colpevoli sfuggiti alla giustizia. Da brividi: timore più orrore, il ricordo sinistro di un accusatore formidabile, Antoine-Quentin Fouquier-Tinville, pubblico ministero del tribunale rivoluzionario durante il Terrore giacobino. Migliaia di teste caddero nella cesta sotto la ghigliottina e certamente non tutti erano colpevoli, se non dal punto di vista folle della rivoluzione. Infine – erano tempi violenti – toccò anche a lui di essere accusato senza possibilità reali di difesa e salire i gradini del patibolo. Si sentiva innocente e lo disse con il coraggio di chi sa di parlare a futura memoria. “Non sono io che avrei dovuto essere portato qui dinnanzi, ma i capi i cui ordini io ho eseguito. Io non ho agito che in forza di leggi formulate da una Convenzione investita di pieni poteri. A causa dell’assenza dei suoi membri, io mi trovo capo di una cospirazione che non ho mai conosciuto. Ma eccomi esposto alla calunnia, a un popolo sempre avido di trovare un colpevole.” Finì in una fossa comune e nel giorno dell’esecuzione ebbe ben sedici compagni di sventura.
Lungi da noi paragonare chicchessia a Fouquier-Tinville o augurare la medesima sorte, ma fa orrore il senso di onnipotenza, di immunità e irresponsabilità di certi uomini e donne in toga. L’orrore e il timore aumentano se pensiamo alle leggi che limitano la libertà di espressione su temi “sensibili” e addirittura chiamano reati alcuni convincimenti ribattezzati delitti di odio. Chi ci accuserà, chi ci giudicherà, lo farà sempre più in base ai suoi principi, ai suoi interessi personali o di gruppo, al clima sociale del momento.
Il povero Livatino chiedeva se stesso di praticare l’equilibrio, la discrezione, il rigore morale, la dirittura intellettuale. Finì ucciso sulla strada di Canicattì. Non pretendiamo di essere giudicati da altrettanti Livatino, ma almeno di non essere considerati colpevoli a prescindere (il Davigo-pensiero) e di non doverci giustificare per le nostre idee più che rispondere dei reati commessi.
Qui sorge una questione spinosa, che non riguarda il ruolo della magistratura, ma l’intera nostra società, che sta diventando sempre più psicopatica. Cerchiamo di spiegarci meglio: la psicopatia non è un disturbo mentale, ma un disturbo della personalità. La psichiatria descrive chi ne è affetto come un individuo pragmatico, manipolatore, bugiardo, egocentrico, antisociale, per quanto non di rado dotato di magnetismo personale, impulsivo, dallo stato d’animo irregolare, con relazioni umane e sentimentali caratterizzate dalla disumanizzazione e dalla strumentalità.
Elemento unificatore delle varie categorie di psicopatici è la carenza di sentimenti, la mancanza di empatia e di rimorsi. Se l’analisi è veritiera, l’orrore è che questi sono precisamente i modelli di condotta oggi dominanti. Non potremmo facilmente descrivere così certi capi politici, operatori della finanza, capitani d’industria, idoli dell’intrattenimento? Manipolatori, egomaniaci, mentitori compulsivi. Le loro relazioni sono strumentali e spersonalizzate come il modello di sessualità alla Tinder. Soprattutto, fa orrore la mancanza di senso di colpa e di rimorso, caratteristica dell’Homo democraticus, incapace di discernimento morale. Guai se tali caratteristiche inquinano la personalità di chi esercita funzioni giudiziarie.
Nel caso delle vicende della magistratura, desta orrore il fatto che tutto sembra avvenire in una zona d’ombra istituzionalizzata. Poco importa se operi davvero la loggia coperta Ungheria, poiché esiste comunque un clima, un modus operandi, un sistema che distingue assai bene chi sta “dentro” (loro, i potenti, gli aspiranti alla cooptazione) e gli altri, il mondo della gente comune e dei colleghi non schierati. Tutto avviene nell’ombra di cene, incontri riservati, dialoghi in codice, colpi bassi, divisione per gruppi che assomigliano sempre più a bande. Che cosa conta, in tutto questo, la funzione giudiziaria, l’altissimo compito di rendere giustizia, il diritto e la dignità delle persone coinvolte nei processi e nelle indagini? In alto, su un piedistallo di potere (e di paura!) ci sono “loro”, gli Illuminati. In basso, indifesi a meno di non avere molto denaro e relazioni influenti, tutti gli altri.
Ridiventa oro colato la diffidenza popolare per la giustizia, i suoi formalismi, i riti e le parole incomprensibili, i cavilli e le formule dietro le quali- sempre più spesso- si nascondono l’avidità del potere e l’ingiustizia. La gente lo ha percepito e non si fida più: da eroi popolari, i magistrati diventano soggetti da evitare, come la “giustizia” che amministrano. E questo è un problema ulteriore, immenso, poiché la credibilità dell’apparato giudiziario, la fiducia istituzionale e personale nelle persone in carne e ossa è fondamentale.
Non possiamo fidarci del sistema che Luca Palamara ha descritto nel suo libro. Tanto meno possiamo essere tranquilli davanti a un ordine professionale – incaricato di un potere per il quale dispone direttamente della forza coattiva della polizia- che regola se stesso nell’oscurità, che non rende conto o che si esibisce in intemerate televisive e risse in favore di telecamera, sempre utilizzando il falso linguaggio felpato delle norme, dei brocardi, dei grandi principi. Michel de Montaigne scrisse che la professione più fortunata era quella del medico, giacché i suoi insuccessi sono coperti dalla lastra di marmo della tomba. Oggi cambierebbe idea: sono giudici e procuratori a non rispondere dei loro errori, nonostante decenni di tentativi e un referendum popolare rimasto lettera morta. Se la cantano e se la suonano (e se le suonano…), controllano se stessi nel sancta sanctorum delle associazioni di categoria e del CSM. E’ sempre più grottesca l’enunciazione di principio dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.
In una nazione malata, tutto si degrada e alla fine anche i nodi della giustizia vengono al pettine. Quando c’è il pettine, osservò Leonardo Sciascia.