APPROFONDIMENTI: Pasqua con chi vuoi
Aprile è il più crudele dei mesi, genera lillà da terra morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera. E’ l’incipit della Terra desolata, la più elevata prova poetica del Novecento, di Thomas Stearns Eliot, grande autore cristiano. Significativamente, il primo canto è intitolato La sepoltura dei morti. La memoria vaga in queste settimane sospese in cui si ha nostalgia di tutto e la pandemia ci allontana. Memoria e desiderio, le radici che tornano prepotenti, il lutto vissuto in privato, intimo, silenzioso. Chi scrive ha appena perduto un vecchio amico e una cara parente: corona virus, è il verdetto. Nessun funerale, via di corsa, è proibito piangere, soffermarsi, abbracciare chi soffre, dire addio a chi ci ha camminato accanto. Vincono i monatti postmoderni, igienici e disinfettati. La barbarie del XXI secolo possiede le certificazioni di qualità, ma non cessa di disumanizzare la nostra vita. E’ il proclamato “distanziamento sociale”, considerato, se non una terapia, un’indispensabile cautela antivirus.
In un brano dei Promessi Sposi, Renzo è testimone dell’addio della madre a Cecilia, una bambina morta di peste. L’aspetto della donna lascia trasparire “una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale”, poiché è evidente che ha versato molte lacrime e porta su di sé i segni del contagio. La bimba morta che ha in braccio è ben pettinata, con i capelli divisi sulla fronte, indossa un vestitino bianco e lindo, agghindata come per una festa, mentre la madre la tiene col capo eretto e appoggiato a sé come se fosse ancor viva. Un “turpe monatto” si avvicina alla donna per prendere il corpicino, sia pure con una esitazione e un rispetto inusuale per un simile figuro, ma la donna si ritrae e chiede all’uomo di poter adagiare la bambina sul carro con le proprie mani, gli mette nelle mani una borsa con del denaro e si fa promettere che Cecilia verrà posta sottoterra così com’è vestita, senza “levarle un filo d’intorno”. Nel pieno della barbarie asettica di queste settimane, dedichiamo il gesto umanissimo di quella madre a tutti coloro che soffrono.
Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi, recita il proverbio. Chiusa, interdetta, sospesa per decreto dell’onnipotente signor presidente del consiglio dei ministri, il sovrano dello stato d’eccezione, Pasqua non è più “con chi vuoi”, anzi non è neppure Pasqua. Ce lo dice con la gaffe del secolo Giuseppe Conte, secondo cui la ricorrenza riguarda il ritorno a casa degli ebrei. Meno male che è cattolico, credente e devoto di padre Pio; colpa dello stress da Covid 19, MES e coronabond. Il problema è la conferma proveniente dalla Chiesa: che Pasqua è, con le chiese sbarrate, i riti celebrati in solitario, via Facebook e in streaming? Crediamo che non sia mai successo in duemila anni, nonostante guerre, carestie, pestilenze, epidemie. Fra Cristoforo è cancellato, un segno dei tempi, un altro. Quando più c’è bisogno di parole e gesti di speranza, di vicinanza, adesso si dice empatia, fuggono le sottane dei preti.
Eppure, a dispetto loro, il figlio dell’uomo risorgerà: senza autocertificazione, senza permesso di uscita. La Chiesa rinserrata, per una strana associazione d’idee, ci fa venire in mente la figura ridicola di Don Ferrante, altro personaggio manzoniano, impegnato a disquisire se la peste fosse sostanza o accidente. Anacronistico e tronfio, il povero Don Ferrante sosteneva che “in rerum natura, non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera.” Si coricò e morì.
Temiamo che il virus stia decretando una nuova vittoria del pensiero moderno: la fede è un fatto privato, non può interferire con la vita sociale. Pregate, se proprio volete, ma per conto vostro, a porte chiuse, senza disturbare e, ohibò, senza contagiare alcuno, da disciplinate monadi impazzite, dopo aver completato il vostro smart work, il lavoro furbo, fatto da casa, lontano dagli altri, in un silenzio in altri tempi detto religioso. La claustrofobia del presente non si trasformi in claustrofilia. L’agorafobia di massa, fobia nel senso di paura malata, fa bene al potere. Lontani, isolati, impauriti dalla vicinanza insicura, priva di certificato di sana e robusta costituzione, i sudditi non si ribellano, seguono docili gli ordini dei superiori. Passerà, non passerà, sarà un pesce d’aprile o un cambio di mentalità? Lo scopriremo vivendo, ma non dimentichiamo che, epidemie o no, l’uomo è un animale sociale; gli hikikomori, i rinchiusi, asserragliati nelle loro case, drogati di immagini e di connessioni, sono malati altrettanto gravi dei colpiti da Covid 19. Pasqua la farai dove e con chi vogliono lorsignori. E sia, se davvero servirà a debellare il morbo, ma intanto ci stanno abituando, per amore o per forza, a diffidare gli uni degli altri. Imponiamo noi stessi le distanze, il vicino, l’amico di sempre, il parente, tutti potenziali untori. Alla larga. Se ci fosse una colonna sonora del coronavirus, sarebbe certo un antico successo di Adriano Celentano: “Stai lontana da me. Non ti voglio perché, Non ti voglio così. “
Pochi giorni fa, uscito di casa per la spesa, chi scrive ha incontrato una collega che conosce da almeno 35 anni. Non ha voluto stringere la mano tesa, e questo resterà per noi il simbolo triste di questa Pasqua bastarda. Diciamolo senza reticenza: dopo, molte cose cambieranno. O vinceranno in maniera definitiva, irrevocabile, “loro”, quelli della globalizzazione, del nuovo ordine mondiale, della riduzione dell’umanità a materiale zootecnico, da governare come un gregge e poi abbattere selettivamente, o si riuscirà a recuperare un pezzetto almeno dell’umanità perduta. Intanto, passiamo dal politicamente corretto all’istericamente corretto. Stai lontano da me, tutti dietro al cane da pastore, il gregge vuole arrivare vivo non a casa, ma al mattatoio. Il governo organizza una commissione per combattere le false notizie: come sempre, come in guerra, la prima sconfitta è la verità. Unica “narrazione “ammessa, quella dei bollettini di guerra ufficiali. Chi non ci sta, è un untore, un criminale.
La commissione contro le false notizie potrebbe lavorare in parallelo con la commissione Segre, quella che investiga i “delitti di odio”. Quale odio è più evidente di quello di chi non si conforma al gregge? Già si intravvede la dittatura degli autoproclamati saggi e riflessivi nel cipiglio delatorio di molti sgherri – volontari e non- decisi a far rispettare il distanziamento. Un metro, mi raccomando, a centimetri novantacinque si paga la sanzione e ci si espone al ludibrio dei Buoni, dei Disciplinati, del Credenti della religione ufficiale, la verità di Stato al tempo di Sua Maestà il Virus. Forse sbagliamo, magari esageriamo, ma ci sembra che siano stati diffusi i germi di una dittatura di massa tra le più ripugnanti. La Verità con la maiuscola è, da sempre, l’interesse del forte; lo sapeva Platone, con il celebre argomento di Trasimaco nella Repubblica. Presto, di verità ufficiale in verità ufficiale, prescriveranno davvero il rogo dei libri alla temperatura di Fahrenheit 451. I chierici del politicamente corretto, uniti alle masse cretinizzate, applaudiranno freneticamente a debita distanza reciproca.
Il sindaco della nostra città ha chiesto a un gestore telefonico di monitorare le uscite dei concittadini; si invoca la sorveglianza attraverso i droni, le celle telefoniche e gli altri apparati tecnici di controllo a disposizione del potere. Applaudiamo freneticamente la nostra cattività, forniamo noi stessi i lucchetti delle catene, i primi sintomi della delazione di massa già si avvertono nel cambiamento psicologico di tanti. Avreste pensato di dover rendere conto di ogni minimo spostamento? Intanto, mentre ci avviamo verso la farmacia o dal salumiere, istintivamente, cambiamo strada se avvistiamo un vigile o un poliziotto. Ha vinto il virus. Stranamente- ma forse no – certi strumenti non sono stati mai attivati contro il crimine, l’immigrazione clandestina, lo spaccio di droghe. L’illusione che l’emergenza finisca in poche settimane e tutto torni come prima cede a una progressiva rassegnazione, prodromo dell’adattamento a vivere nello zoo a tempo indeterminato. In più, la stessa normalità che ora invochiamo, fino a poche settimane fa era il problema.
Pasqua con chi vuoi? Non proprio, piuttosto, assai spesso con estranei che chiamiamo famiglia. Negli Usa, gli avvocati ricevono valanghe di chiamate per assistere coppie sull’orlo di crisi di nervi. Vedremo se, tra un anno, si saranno riempite le culle, frutto della prossimità, o si saranno intasati i tribunali civili per separazioni, divorzi e cause civili. Non siamo ottimisti, specie per il silenzio di tutte le agenzie morali, ridotte alla litania arcobaleno di “andrà tutto bene”, ce la faremo e simili sciocchezze. I cosiddetti esperti occupano da mane a sera tutti gli schermi – ma non dovrebbero occuparsi di terapie e ricerche, stare, come si dice, sul campo? – le loro verità risultano contraddittorie, alcuni diventano vere e proprie stelle della comunicazione di una particolare forma di spettacolo, la rappresentazione del virus. La retorica, melensa, ridondante, irritante, ci inonda di melassa sui nuovi eroi, medici, infermieri, operatori sanitari. Eroi, certo, loro malgrado, a mani nude, spesso, ma l’impressione è che il sistema che ora li esalta si stia scaricando la coscienza, in attesa di riprendere in mano i giochi di ruolo.
Noi invitiamo a una singolare Pasqua con chi vuoi. Innanzitutto, spegniamo gli schermi invasi dagli “esperti” e dai portatori di una falsa, servile, saggezza, e rivediamo, incontriamo con gli occhi dell’anima tutti coloro che hanno significato qualcosa per noi. Un ricordo e una lacrima – non bisogna vergognarsi dei sentimenti – per chi non c’è più, innanzitutto; poi troviamo il modo di comunicare con tutti gli altri, comunicare davvero, non un semplice messaggino. Risentire le voci amiche, riprendere contatto, accorciare, almeno con lo spirito, la distanza che ci separa dai tanti, tantissimi che hanno attraversato la nostra vita. Molti ci hanno insegnato qualcosa, altri sono stati di esempio, qualcuno, semplicemente, ci ha teso la mano. Restituiamola, quella mano tesa, magari con i guanti. Non ci distanziamo troppo. Una carezza, anche attraverso la mascherina, vale più degli algidi consigli degli esperti, una telefonata forse non allunga la vita, come in una fortunata pubblicità di qualche anno or sono, ma rompe l’isolamento, va in controtendenza rispetto all’invocata distanza, senza aumentare il rischio di contagio.
Il rischio più grande, dopo la malattia, sarà il silenzio, l’incomunicabilità, l’assuefazione a una condizione infraumana. Un conoscente, tecnico di una multinazionale nordica, raccontava con raccapriccio le sue giornate di lavoro e aggiornamento in Svezia, tra colleghi estranei, infastiditi dal rapporto diretto, refrattari a condividere i semplici dialoghi della quotidianità, lui sospetto perché ancora umano. La sua esperienza adesso si chiama smart working, lavoro furbo, svolto da casa. Distanti, estranei ai colleghi, inevitabilmente più competitivi- tra sconosciuti è più facile – ognuno con interessi propri, soggettivi, mai comuni. Un mondo per niente furbo di atomi solitari. Oggi, la civilizzazione convinta di aver scoperto il segreto del moto perpetuo, è costretta a fermarsi. Ciò che vogliono ad ogni costo impedire è che riflettiamo: meglio la paura, gli ordini perentori di un’autorità benevola, che ci fa credere di prendersi cura della nostra esistenza in vita.
Intanto, ci ha espropriato anche di Pasqua. E’, per credenti, agnostici e indifferenti (la gran massa), il momento più importante dell’anno; colui che, piaccia o no, ha fondato la nostra civiltà, forse è uscito dal sepolcro. Se è una favola, anzi una narrazione, accomodiamoci nella difesa ad oltranza della nostra pellaccia, che è, comunque, a termine. Se invece fosse la verità, poca importanza avrebbe la nostra agitazione per distanziarci, per sopravvivere un altro po’. Chi vive nel terrore muore mille volte. Uomini siate, e non pecore matte, chiedeva Dante. Mai come di questi tempi sentiamo sulla carne il monito del poeta. Chi si fa pecora, il lupo se la mangia. Mai come in questo periodo abbiamo avvertito il desiderio, il fiato della libertà, un sentimento concreto, nulla di metafisico, andare dove ci porta il cuore, pensare e dire quello che ci sembra giusto, respirare, cantare, piangere: vivere.
Non sappiano, non ancora, se il virus è un prodotto del potere o un accidente della natura che si fa sostanza, con buona pace di Don Ferrante. Ciò che vediamo con raccapriccio è la reductio ad gregem – se possiamo permetterci il termine- dell’orgoglioso homo sapiens et consumens. Dobbiamo difenderci, certo, dobbiamo, se possibile, sopravvivere. Ma non per vivere come criceti nella gabbietta o pecore da tosare e poi avviare al macello. Il senso della Pasqua è che l’uomo è salvato, se lo vuole.
Pasqua con chi vuoi, ma con la mano tesa, uomini tra gli uomini, persone, non unità, non risorse umane, non masse opache, moltitudini a disposizione del potere. Tra le bandiere, le lenzuolate, gli arcobaleni e i tricolori rispolverati, un piccolo striscione ci ha fatto inorgoglire, in un balcone della nostra città. Tra una croce e un tricolore dipinto con colori sbiaditi, una mano ignota ha tracciato una frase breve e definitiva: Ave Maria, e avanti! Buona Pasqua.