APPROFONDIMENTI: Quel che di Verona è fin troppo visibile

 

APPROFONDIMENTI: Quel che di Verona è fin troppo visibile

Questo articolo ha il fine di estraniarsi nettamente dalle premonizioni e, certamente, dalle descrizioni diffuse per la maggior parte da coloro che Verona l’hanno vista mediante uno schermo, sia esso bacheca social, home page di qualche testata giornalistica, talk show e via dicendo. Vorrei scrivere quanto ho visto, sentito e vissuto personalmente in qualità di uditrice, ma prima di tutto in quanto essere umano, al quale è stato fatto il dono della vita; di figlia, frutto dell’unione sponsale di un padre e di una madre; di donna, poiché ogni cellula del mio organismo contiene traccia della mia identità sessuale XX, in dotazione fin dalla nascita e oggettivamente innegabile; di moglie, perché ho liberamente scelto di amare e lasciarmi amare; di potenziale madre, per i figli che Dio vorrà donarci; di componente essenziale, alla pari di mio marito, del nucleo familiare nato da sei mesi esatti, parte di uno Stato, cellula viva di un popolo; di bioeticista, integralmente devota al bene, al bello e al vero, insito in problematiche che ci interrogano sulle origini, sulla natura mortale, in definitiva, sull’identità umana; di cittadina del mondo, essere in relazione.

Durante questi tre giorni hanno esposto moltissimi relatori, professionisti, alcuni dei quali addirittura inaspettati, ma generalmente ognuno proveniente da inclinazioni e orizzonti culturali, religiosi, politici estremamente differenti, una diversità che ha valorizzato un carattere essenziale dell’evento: il dialogo. Uno dei tratti maggiormente oscurati e dimenticati dall’attentissimo sistema mediatico impegnato a decifrare l’impianto ideologico del colore dei tovaglioli durante il buffet! Le tematiche discusse sono state molte, sviscerate con lucida diligenza e scientificità; qui ne ripropongo alcune essenziali. Anzitutto l’imprescindibilità sociale della famiglia cosiddetta “tradizionale”, ma molto più naturalmente e intuitivamente quella che ha garantito la sopravvivenza della specie mediante la possibilità procreativa per la quale è inevitabile la polarità maschile-femminile. Ci si è posti, in merito, l’interrogativo di quale sia il discrimine distintivo tra condividere uno spazio, quindi essere coinquilini, ed essere famiglia: se il politicamente corretto prevede che tutto sia amore, cosa potrà un giorno impedire, ad esempio, di considerare la poligamia un diritto di aggregazione legittimo? Attingendo dalla cronaca degli ultimi giorni potremmo domandarci se una nonna che presta il proprio utero al figlio per dare alla luce suo nipote, prole di due uomini, ottenuto (fabbricato?) con gli ovuli della zia, non possa considerarsi esempio di famiglia allargata e un po’ stravagante, sulla scia del ridondante “se c’è l’amore, tanto basta”, prodotto del permissivismo edonista. Perché la comunità internazionale dovrebbe occuparsi di famiglia? Il fatto, molto semplice, è che essa, focolare di vita, istituto sorretto e garantito dalla Costituzione, ma ancor più sostanza onnipresente globalmente, è una realtà storica che ci supera in quanto capace di regalarci l’identità di figli, di cui tutti siamo, necessariamente, portatori. Snodo essenzialmente relazionale, lezione ed educazione alla prossimità, all’attenzione verso l’altro, invito ad uscire da noi stessi per mettere in pratica un sano principio di sussidiarietà, da riversare nella società, a cominciare dall’accettazione e dal riconoscimento del dissimile: madre e padre sono espressione di reciprocità; opposizione e complementarità. Chiaramente entro questo quadrante la politica internazionale ha speso numerose parole d’impegno -talvolta futuro, altre già attuale- sul sostegno economico a favore non solo della famiglia, ma già dell’intenzionalità proiettata alla nascita di tale unione. Significa costruire strategie efficaci perché anche solo la possibilità per una coppia di consolidarsi smetta di risultare utopia, scendendo al presente. I rappresentanti ungheresi hanno lanciato una grande sfida agli altri Paesi presentando i vantaggiosi piani familiari azionati dal governo per scagionare la comunità dal pericolo di sentirsi abbandonata, in difficoltà o, banalmente, senza riferimenti politici nella pianificazione di un futuro a prova di prole. Sia chiaro che non si tratta solo di un impegno finanziario, ma anzitutto culturale, che abbracci fiduciosamente il concetto di “Óikos”, ovvero casa, polis ed economia, unità domestica, alimentando la qualità delle relazioni umane al centro della sua essenza: rispetto, pudore, tenerezza, sacrificio, donazione, autorità e primato educativo genitoriale sono pilastri vacillanti nella mentalità libertaria prevalente, eppure in questo vuoto si precipita incessantemente.

Lapalissiano il collegamento antropologico ed etico di fondo, humus per una rinascita: il dramma dell’assenza totale di strumenti del pensiero che lo introducano all’abc fondamentale del ragionamento morale sul distinguo tra bene e male, lecito e illecito, diritto e dovere, libertà e responsabilità. Scadere nello stampo relativista tipico di coloro che ingenuamente sostengono l’impossibilità di una normatività insita nella natura ordinata delle cose, non ultima la natura umana, per ottemperanza riguardosa di eterogeneità vincolate a regimi di coscienza istintuale, non consente di fatto la crescita rigogliosa dei principi non negoziabili, retrocedendo ad un baratto interessato dalla logica del compromesso.  Schemi d’azione individualistici, adatti a composizioni di soggetti fra loro separati, scissi, isolati quindi enumerabili senza eccessive implicazioni, tali per cui diverrà perfettamente normalizzato e lineare un procedimento in cui una donna gestante terrà in grembo il figlio biologico di estranei da consegnare al committente, sventrando il diritto di appartenenza personale alle proprie origini in cambio dello sfruttamento di donne scelte tra le vignette di cataloghi predisposti, sulla scia di qualità interscambiabili e/o preferibili in vista del tipo di persona e futuro che i mandatari auspicano per i loro figli, in modo tale che questi possano incarnare il desiderio idealizzato nei rispettivi “vorrei”. Sulle spalle di queste pretese, quale posto è coerentemente riservato all’uguaglianza, principio di parità, raffazzonato in slogan compulsivi utilitaristi e liberali, se per uniformarsi alla sensazione di libertà da vincoli collaterali colpevolizzanti ci si presta a scartare essere umani fabbricati meccanicamente, selezionati, valutati idoneamente o abbandonati in parentesi temporali di crioconservazione indefinita nel tempo e nel senso? Quando, la parità tra appartenenti alla specie umana, da indistinta si è fatta parziale e mezzo di dispotismo? Vorrei mi venisse spiegato chi ha l’autorità ontologica di ricadere nell’eterno ritorno suprematista di alcuni esseri umani su altri, scartati poiché non conformi alle aspettative di chi su di essi non dovrebbe avere poteri, ma solo obblighi. Partecipanti, organizzatori e relatori -sembrerebbe una novelletta comica se non fosse drammaticamente vero- sono stati accusati violentemente di non sostenere la dignità della donna; ebbene mi domando: avallare uno schiavismo di tal misura nei confronti di un essere umano, di una donna, magari con l’aggravante della povertà estrema, di condizioni di vita accidentalmente precarie, spinta quindi dal bisogno, perfino già moglie e madre in tantissime occasioni documentate, equivale ad amare e riconoscere la grandezza del genere femminile così come merita? Se affermativo, si sta forse insinuando che la dignità della donna vale una sua commercializzazione? Può legittimamente una tale barbarie, che il Congresso ha proposto di denunciare come crimine contro l’umanità, costituire oggetto di ribrezzo per coloro che, come noi, ne denunciano la disumanità più totale in sessione pubbliche e sovranazionali? Si compiace di questo orrore perpetrabile il politicamente corretto osannato dalla post-modernità? Si compiace forse dell’indifferentismo dinanzi al grido esistenziale di un figlio vagabondo perduto al cospetto della domanda “chi sono io?”, più compromettente di qualunque altra? Doveroso cogliere che la secolarizzazione ha deformato la sessualità frammentandone l’estensione semantica in brandelli di meri “atti sessuali”, pur consci della diseguaglianza fra i due significati. Trattando la corporeità come sola carne, si è predisposta la prima alla mercé della cosificazione: il corpo diviene oggetto a disposizione del piacere, del godimento fine a se stesso, privatizzato; scartato il pudore, in voce all’abusato “vietato vietare”, quali criteri riusciranno a trasmettere un atteggiamento premuroso, invece che di possesso e dominio se urliamo senza rammarico, a noi stessi e quindi all’altro, che del corpo è doveroso fare qualunque cosa purché sazi un bisogno individuale? Da qui occorre iniziare, dalla formazione al valore dell’unitotalità della persona, sorgente di meraviglia e gratificazione. Le derive pornografiche, gli abusi, parafilie e perversioni non riecheggiano, nell’ampia diffusione dolorosamente raggiunta, il lamento di una sostanziale assenza della comprensione totale, integrale della persona umana che torni ad essere mediata dai colori della bellezza indisponibile? E perché, allora, impedire che si lavori ad un recupero di una semantica umana profonda, capace di difendere tutte le vittime passate, presenti e future, e che deformi l’assuefazione, fin troppo generalizzata, dall’erotismo, sostituto istintuale dell’amore sponsale?

Mi è stato chiesto, in questi tre giorni, quale linguaggio userei nei confronti degli attacchi sferrati dalle femministe. Lo ribadisco anche qui: incomprensione, distanze teoriche dovute a confusi presupposti viziati da ideologie storiche che rendono illeggibile il messaggio proposto dai cosiddetti retrogradi, il quale, se fosse compreso, aprirebbe una stretta vicinanza incontrovertibile a chiunque apprezzi la natura della donna, ovvero che per il solo fatto di essere creatura umana nessuno può arrogarsi il diritto di conferire lei dignità, può infatti solo riconoscerla. Qui sussiste la netta uguaglianza fra sessi differenti, che non è sinonimo di approssimazione identitaria tra maschile e femminile: la donna vale in quanto donna, non perché dovrebbe somigliare all’uomo; dal canto suo l’uomo vale in quanto uomo. Diritto della donna è avere un’alternativa trasparente, possibile. Mi preme puntualizzare che in sede congressuale si è parlato moltissimo di misure essenziali, improcrastinabili affinché la libertà della donna possa esprimersi. Cosa significa? Darle modo e garanzie tangibili che tanto la dedizione lavorativa, quanto la vocazione alla cura della propria famiglia, siano equamente fruibili e che la scelta di essere madre smetta istantaneamente di costituire discrimine per assunzione e mantenimento lavorativo. L’invito alle autorità e alla società è stato precisamente quello di far sentire al sicuro la propensione alla genitorialità, oggi macchiata da angoscia, timore, inquietudine e instabilità, affinché possa rinascere un frizzante «desiderio di famiglia», per usare la felice espressione di Mons. Zenti, contrastando così uno dei peggiori inverni democratici esistenti dovuto all’ampliamento tecnico dei mezzi per scardinare le nascite o prevenirle. Io, in quanto donna, non mi sento per nulla rappresentata da cartelli volgari che incitano al sesso sdoganato in qualsivoglia direzione e che annullano la mia integrità incitando all’egocentrismo esasperato, spinto al punto da condannare a morte il figlio rifugiato nel grembo materno. Dichiararmi contraria a quanto, embriologia e giuridica definiscono, senza remore, omicidio verso un essere umano nuovo, sistema biologico unico, geneticamente ineguagliabile, coordinato e autonomo nel suo sviluppo, privo di salti biologici e ontologici di sorta dal momento della fecondazione al parto, è forse motivo di disonore per l’umanità che coabito? C’è una Verità da dis-velare con tenacia e coraggio: la negazione ideologica dell’umanità del concepito non è supportata da alcunché se non da un comprovato compromesso intriso di interessi e speculazioni. Prova a sostengo di quanto affermo è, ad esempio, il dramma violentissimo accusato da ogni singola madre che abbia voluto o subito un aborto, la cui traccia permane nel suo organismo indefinitamente. Rinvigorire la prassi di assistenza preventiva a simili lesioni è forse un sopruso oltraggioso, sprezzante del bene di queste donne? E a quel figlio, quali colpe addossare tanto da privarlo intenzionalmente del padre di tutti i diritti, il diritto alla vita? Il travaglio esistenziale è sommo quando l’umanità non trova ragioni abbastanza valide nella natura umana per sentire vigoroso l’obbligo morale di preservarla dalla negazione della libertà e della dignità, valori indiscutibili dei quali si fa portatrice. “Vite non degne di essere vissute” è l’espressione che mi ha costretta alla commozione quando ho ascoltato la testimonianza di Sammy Basso o l’esibizione dei ragazzi affetti da disabilità, perché se non fosse stato per il coraggio della loro famiglia e il sostegno forte di un impianto valoriale saldo culturalmente nel significato proprio dei diritti inalienabili, io non avrei potuto essere spettatrice di quelle voci perché quelli voci sarebbero state lo scarto non voluto di un giudizio, sia esso impetuoso, ponderato, sofferto, arrabbiato, ingenuo o superficiale di qualcuno fragile quanto loro. Quanto più alta è la statura di una verità tanto maggiore è il senso di costrizione che spinge lo sguardo a terra e così il mio, perché ero cosciente che la forza tracotante di un popolo fedele alla vita è un movimento di sopravvivenza, un gesto eroico sollecitato dall’attenzione sensibile verso la vulnerabilità.

Perciò scusate, ma prevaricare la libertà di proclamare quanto universalmente condiviso, ovvero che «i diritti inalienabili non sono una concessione», non può abbassarsi alle stringhe idolatriche di una neo-religione «a-liberal libertaria», come amabilmente l’ha definita Maria Giovanna Maglie, relatrice molto apprezzata durante le giornate nel veronese. Oscurantisti, retrogradi, estremisti, feccia dell’umanità, sfigati, bigotti e altre variopinte denominazioni tolleranti, filantropiche, egualitarie hanno bersagliato il democratico, civile, onesto e libero esercizio di espressione dovuto ad ogni uomo. È su suddetta incoerenza manipolatoria-manipolante l’ambiente idoneo allo sviluppo di un’ecologia umana integrale? Alberga qui la disponibilità tollerante a comprendere pienamente problematiche e punti di forza emblematici nella contemporaneità? L’evidenza rischiara il caos, lasciando intravvedere nitido il neonato paradigma etico dominante: la maggior uguaglianza deve essere omologazione al pensiero unico, pertanto si predispone un’etica della dis-uguaglianza con metodiche di inquadramento rieducativo costrittivo messo in atto mediante stratagemmi mediatici, giochi di potere, interessi globali di mercato, prevaricazione ideologica. Il problema è che la libertà ulula sia da un lato che dall’altro e l’uomo si distingue ontologicamente dagli altri enti proprio in virtù di una creatività sfuggevole, scivolosa, incalcolabile ed è qui che è caduto ogni dominio: il risveglio della ragione, fosse anche solo di uno dei prigionieri della caverna al quale sorge il dubbio che forse, la realtà così come ci viene detto di vederla, è fittizia alla pari dei suoi progettisti. Guarisce così la cecità. Il turbamento di una coscienza può smuovere la giustizia di un’intera comunità di uomini; una sete che percuote il sonno.

Ci siamo alzati in piedi senza tafferugli, non politicizzati, in piena autodeterminazione, calpestando i limiti dell’accettazione, nonostante lo sfregio di una mostruosa macchina mediatica appartenente a quelle sedicenti propensioni libertarie, forti di inganni, denigrazioni, minacce, maledizioni, offese, screditamento mediatico. La risposta ha sempre calpestato la soglia. Ci siamo alzati per costruire ponti fra distanze geografiche, culturali, religiose annodando la trama nello sforzo propositivo, pro-attivo di un’etica che abbia l’uomo come fine, e di un’antropologia che non si stanchi di occuparsene, così che il diritto di dare a ciascuno ciò che è suo, opposto all’ostentazione di esigere in qualità di diritti ciò che alcuni desiderano a prescindere da chi gli cammina accanto, permanga criterio di civiltà ed equilibrio. Un atteggiamento, quello caratterizzante l’evento e la replica all’opposizione, definito fobico-discriminatorio: ebbene, temo sia una grave lacuna supporre una ripugnanza profonda nei confronti di esseri umani banalmente per la sensibilità/adesione a idee differenti. In una società democratica, infatti, non appoggiare determinate scelte di vita è legittimo tanto quanto mostrare sostegno; adibire luoghi di discussione su di una realtà piuttosto che un’altra è parimenti legittimo, pur mantenendo disparità d’opinione rispetto a chi invece ha liberamente deciso di estraniarsi dall’evento in questione. Nasce la discriminazione quando si disprezza e mortifica la persona, non quando vi è differenza contenutistica fra i valori dell’una e dell’altra. Qui il discrimine, che il politicamente corretto ha maliziosamente viziato di convenienza per raggirare lo strumento di pensiero razionale in grado di sovvenzionare l’incontro civile nella diversità. Purtroppo l’accusa denigratoria ha inondato mediaticamente, pubblicamente le migliaia di anime radunatesi in piazza o presenti nelle tre giornate. Quando si scade a questo, allora lì sì che si verifica un nauseabondo rifiuto radicale dell’estraneo, del vicino di casa piuttosto dell’amico di una vita o del collega di lavoro. Totale cortocircuito passivo, ideologico di cui la storia ha già molto da insegnarci!

Amarezza, non disprezzo: sono convinta che chiunque si arroghi l’ipocrita presunzione dei mezzi elencati, abbia esaurito gli argomenti essenziali di ciò che proclama; ragion per cui oltraggiare, utilizzando addirittura la censura mediatica avida di disinformazione, la verticalità paritaria dell’empatia umana, anziché misera mortificazione, diviene stratagemma. Un quadro confuso che miserevolmente avanza con spirito di contrapposizione, piuttosto che integrazione; scavare buche al buio dove il fratello fatica per mantenere agibile la strada principale da percorrere è un gesto vile tanto quanto vacillante, insicuro. Lo spessore della causa è una sovrastruttura rispetto agli interessi politici o privati, per questo nessuna di queste può razionalmente costituire, per coloro che abbracciano la sostanza, ragion sufficiente di esonero o, peggio ancora, ostruzionismo quando la collaborazione mieterebbe benefici propensi all’edificazione di quella “ecologia umana integrale” dove la consapevolezza di un oggetto complesso viene disciolta nella linearità del vero e dove, sicuramente, primeggia l’abbondare di bellezza affidata alla nostra tutela ogniqualvolta si parli di famiglia e vita, dandone testimonianza piena.  

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