APPROFONDIMENTI: Renzi, Calandrino e l’elitropia

 

APPROFONDIMENTI: Renzi, Calandrino e l’elitropia

Alzi la mano chi ha capito qualcosa della crisi di governo. Ha vinto Conte o Matteo Renzi? Di sicuro ha perso il popolo italiano, al quale vanno imputate due colpe essenziali: la prima è avere votato in massa per il partito di un comico, la seconda di essere sprofondato nel letargo civile.  Inutile ostentare indignazione, raccogliamo quanto abbiamo seminato. La classe dirigente è lo specchio fedele di ciò che siamo diventati. Non resta che riderci sopra, allontanarci in maschera dalla realtà e rifugiarci in una villa incantata in campagna, come i giovani fiorentini del Boccaccio al tempo della peste. Lasciatemi divertire, chiedeva Aldo Palazzeschi: “tri tri tri,fru fru fru,ihu ihu ihu,uhi uhi uhi. Il poeta si diverte, pazzamente smisuratamente! Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto.”

E’ una questione tutta toscana, come Matteo Renzi, piffero della montagna che andò per suonare e venne suonato; ma forse, chissà, non è ancora detto. In realtà, Matteo e Giuseppe sono fatti per intendersi. Figli entrambi della sottocultura clericale, cinici ed ambiziosi, vagamente progressisti, cattolici, di centro, ma anche un po’ di sinistra con un pizzico di destra – l’abortito partito della nazione per Matteo, il populismo di ieri per l’avvocato pugliese- condividono lo stesso orizzonte, appartengono all’eterna palude che sta sempre a galla. Conte e Renzi sono gli interpreti ideali dell’anima arci italiana. 

Ma, dicevamo, è un fatto toscano, anche se Conte è di Foggia. I due si somigliano e in riva all’Arno si dice “da Montelupo si vede la Capraia, Dio li fa e poi li appaia”.  Il problema è che uno è di troppo. Stavolta pare che vinca il pugliese, che Buffalmacco abbia vestito i panni di Calandrino, ma non si sa mai, ci sono i tempi supplementari e da noi ogni ultimatum è un penultimatum. Toscana è Gianna Nannini e il rapporto tra Renzi e Conte somiglia a Fotoromanza. Ti telefono o no, ti telefono o no, io non cedo per prima. Mi telefona o no, mi telefona o no. Chissà chi vincerà. Questo amore è una camera a gas, è un palazzo che brucia in città.

Scacciamo i cattivi pensieri, rinunciamo a paragonare il palazzo che brucia all’Italia e, come il poeta, divertiamoci. Che poi, le parole apparentemente senza senso di Palazzeschi “non è vero che non voglion dire, vogliono dire qualcosa. Voglion dire… come quando uno si mette a cantare senza saper le parole” Già, l’uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia. Il governo è come la torre di Pisa, che pende, che pende, e mai cade giù. Se fossimo malintenzionati, diremmo che è il governo dei ladri di Pisa, che “leticano di giorno e vanno a rubare di notte insieme”, secondo il vocabolario dell’accademia della Crusca. Nessun qualunquismo, solo un modo di dire. Non diremmo mai “ahi Pisa, vituperio delle genti del bel paese dove il sì sona.” Primo, perché oltre il sì esiste anche l’astensione, secondo perché il padre Dante non passerebbe i rigori della legge Mancino: discriminazione territoriale.

Speriamo di rimediare citando Giosuè Carducci- lucchese – “su, su, popolo di Pisa, cavalieri e buona gente “. Lucchese era anche Giacomo Puccini: “un bel dì vedremo alzarsi un fil di fumo” e Renzi- Calandrino canterà come Calaf “all’alba vincerò”. Nessun dorma, la rivincita di Matteo è questione di ore. Gli basterà rifugiarsi a Pistoia, in via Abbi Pazienza. Esiste davvero, chi non ci crede consulti Google Maps e poi – rispettando le distanze e i colori delle zone variopinte in cui Conte ha diviso lo Stivale– corra nella città sull’Ombrone, ché di pazienza c’è gran bisogno.

Renzi ha sbagliato con i numeri: forse doveva affidarsi alla sequenza di Fibonacci, il matematico pisano la cui successione numerica è considerata perfetta. In una novella del Decameron, lo sciocco Calandrino è convinto dal briccone Buffalmacco che in riva al Mugnone, fiumicello fiorentino, si trova l’elitròpia, la pietra miracolosa che rende invisibili. Animato dalla speranza di poter rubare a mansalva senza essere visto, Calandrino – che forse aspirava alla carriera politica – raccoglie le pietre indicate dal buontempone, ma rimedia solo sassate. Torna a casa furioso e non sa fare altro che picchiare la moglie. E’ prerogativa femminile, dice, far “perdere virtù alle cose”. Beffato, il povero Calandrino resta “malinconoso con la casa piena di pietre”. Così sta capitando a Renzi che ha rianimato Conte. La disfida di Barletta è vinta per ora dal cavaliere pugliese. Che c’entri la bella Maria Elena Boschi, aretina, figlia dell’Etruria, che non è una nazione antica, ma una banca moderna? Dante ne aveva per tutti, ma dobbiamo dissociarci dal “ghibellin fuggiasco”. Come pensare a Miss Boschi, MEB per la stampa, come a un botolo ringhioso, epiteto degli aretini, anziché a un elegante levriero?

Altra similitudine tra Matteo e Giuseppe: sono entrambi guelfi, vicini alla chiesa. Cattolici “adulti”, s’intende, come usa adesso, ma attaccati a certe sottane vaticane. Alle brutte, si può sempre cambiare bandiera. Guelfo non son, né ghibellin m’appello: chi mi dà da mangiar, tengo per quello, un altro detto fiorentino. Che poi, Matteo non è propriamente fiorentino: viene dal contado, dal Valdarno, è una specie di imbucato, un immigrato nella città del Giglio (magico), assai orgogliosa delle sue mura. Il vostro scrivano vantava una volta, presso Ponte Vecchio, la propria origine di Campi Bisenzio, a un tiro di schioppo, ma il suo interlocutore, fiorentino del sasso, lo fulminò con un proverbio antico: Brozzi, Peretola e Campi, la peggio genia che Cristo stampi! Che dire di Rignano sull’Arno, patria del Buffalmacco decaduto a Calandrino?

Matteo disse che avrebbe lasciato la politica, dopo il referendum perduto nel 2016. Il senatore semplice di Scandicci ringrazi di non essere Pinocchio, a cui si allungava il naso quando diceva le bugie. Ma era un burattino serio, mica un politico. Guarda caso, è toscano anche Pinocchio, frutto della fantasia di Carlo Collodi pesciatino, ossia di Pescia.

Quanto ai “responsabili”, i voltagabbana che hanno fregato Matteo, non sono che barattieri, la parola che indicava “chi, per denaro o altro privato vantaggio, veniva meno ai doveri del proprio ufficio, danneggiando il suo comune o il suo signore”. (Enciclopedia Treccani) Il solito guastafeste, Dante, punì i barattieri nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno. A Lucca, scrisse, “ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita”, cioè sì. Come in parlamento, dove tuttavia si volta la giubba per motivi assai più nobili, riassunti nella formula “il bene del paese”. Nessun rappresentante del popolo sovrano mente: non vengono da Le Piastre, villaggio pistoiese i cui abitanti “sono più bugiardi delle epigrafi” come affermano essi stessi, tanto orgogliosi da dedicare una festa alle frottole. Nessun politico, a memoria d’uomo, si è mai visto in paese.

I responsabili sono chiaramente di Prato, la città di Francesco Datini, inventore della cambiale, che presenteranno all’incasso. Uomini tutti di un pezzo, il loro motto è lo stesso di Giuseppe Giusti da Monsummano, il poeta di Sant’Ambrogio e del Brindisi di Girella: e buon per me, se la mia vita intera mi frutterà di meritare un sasso che porti scritto: non mutò bandiera”. Ecco perché Matteo non ha trovato l’elitròpia ed è stato fregato dai responsabili. Ora dovrà ritirarsi su un monte, ma temiamo che sia quello dei Paschi. Sempre Toscana. Andate a Siena nel palazzo di città in Campo del Palio e nella sala dove si riunivano i governatori, a monito perenne, vedrete due famosi affreschi del Trecento, l’Allegoria degli effetti del buono e del cattivo governo, dipinti da Ambrogio Lorenzetti. Nella città ben amministrata, pulita e armoniosa, vivono abitanti laboriosi e si studia con impegno. In quella mal governata, rappresentata nella parte sinistra della sala (ahi, ahi!) la città è pericolante, piena di macerie, i cittadini distruggono anziché costruire, ci sono omicidi, si arrestano gli innocenti e le attività economiche languono. Nessuna relazione con il presente, ovvio.

Fatto sta che la crisi-non crisi di Matteo somiglia assai all’esito del tumulto dei Ciompi di Firenze, in cui i rivoltosi, poveri lanaioli, vennero letteralmente fregati dagli astuti maggiorenti della città. Scriveva lo storico Filippo Villani “i Ciompi se ne andarono come gente rotta, perché si fidavano e vennero traditi da loro medesimi “. Matteo-Calandrino fa la parte di Michele di Lando, il capo dei Ciompi. Nessun Machiavelli abita a Rignano sull’Arno; la congiura dei Renzi ha lo stesso successo di quella dei Pazzi. A Matteo non resta che il falò delle vanità, il rogo del lusso dei Piagnoni, i seguaci fiorentini di fra Gerolamo Savonarola. Uno di loro fu Sandro Botticelli, il pittore della Primavera e di Venere, poi il monaco finì arso in piazza. A Renzi sconfitto tireranno le pietre come a Calandrino. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, tu sempre pietre in faccia prenderai, parole e musica di Gian Pieretti, pistoiese.

Tra destra e sinistra, voltagabbana, responsabili e costruttori, si finisce simpatizzanti dell’anarchia, il cui cuore antico batte a Carrara, altra città toscana. E’ stata tutta una burla, la crisetta di gennaio, come le false teste di Modigliani nei fossi, i canali di Livorno, che ingannarono gli esperti e fecero ridere il mondo intero. Intanto, perdiamo ogni giorno pezzi di economia e di libertà, mentre la nave del capitano Conte, Napoleone della Capitanata, è “sanza nocchiere in gran tempesta” e l’Italia, “non donna di provincie, ma bordello”. Concludeva Palazzeschi: “io ho pienamente ragione, i tempi sono molto cambiati, gli uomini non dimandano più nulla dai poeti”. “

Io contesto e son ribelle, perché voglio il mondo in Elle. Ma era solo lo slogan pubblicitario di un’azienda tessile toscana: elle di Lebole, non di libertà. E lasciatemi divertire!         

 

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