APPROFONDIMENTI: Westworld, dove tutto è concesso

 

APPROFONDIMENTI: Westworld, dove tutto è concesso

Alienati da chi?

Quando l’incontro sessuale diventa rude pratica, per natura insofferente dinanzi alla trascendenza della persona, qualsiasi pulsione vanta un razionale nell’implausibile: scomparendo la similitudine ugualitaria dell’identità creaturale, l’uomo distoglie l’attenzione sull’origine trasferendola altrove, biasimando l’anatomica interconnessione delle sue parti come strutturale armonia di sé con sé medesimo e di sé con l’essere altrui. La “carnalizzazione” primaria del processo generativo è la sentinella di un dilemma molto più ampio, quello esistenziale della finitudine.

Il tormento trafelato dalla predestinazione naturale allo dis-velamento è la sospensione di un uomo tra l’anonimato e la coscienza di sé; fra l’attrattiva di sentirsi chiamare per nome e la costrizione di una biografia spessa, ma permeabile. Scosso dall’ingestibile malleabilità dei suoi tratti, egli ha percepito l’autocontrollo e l’equilibrio in un atteggiamento metodicamente analitico utile per contraddistingue l’annoiato dall’assetato e in questo senso, l’abbondanza dalla penuria. Avvallando lo scarto con continuità e costanza, ha ridimensionato questo esser-ci personale nell’inavvertenza di due stati come divisi e difformi generando inconsciamente una sorta di confusione quantitativa, spettro dell’attuale indeterminazione identificativa assemblata attraverso il collante di uno smantellamento radicale e dell’anarchica edificazione lasciata al piacevole estemporaneo, con il venir meno di consapevolezza e integrità. L’investitura «liquida», biodegradabile, non sfiora, ma incide violentemente ogni assetto biologico – psicologico – spirituale del singolo tant’è che, in voce ai suoi precetti friabili, viene messa in discussione l’identità storica della creatura, dalla nascita alla morte, individualizzando ciò che avviene nel mezzo, sicché, ostentare controllo, paventando ogni tipo di fissazione, laddove se ne rifiutano i comandi, è il principio della perdita. Jacques Derrida  parla di «turba dell’identità»[1] invocando la ridefinizione dell’origine e della fine, si chiede «reprime, rimuove o libera?».[2]Si può legittimamente sostenere che tutti e tre questi effetti collaterali permangano in ordine crescente degli impercettibili passaggi esistenziali in cui l’individuo ripulisce la sua condizione da ciò che traduce (o assimila) come artefatto vincolante limitativo, sporgendosi verso la terra promessa dell’emancipazione. Il problema è che, mentre il singolo libera se stesso da questi corpi facendo perno sull’autodeterminazione, quest’ultima rimane schiavizzata dalla passività con la quale si trova ad operare: flessibilità, velocità sono i due termini usati dal sociologo polacco Bauman, per significare quel «sentirsi liberi»[3]da tutto, prigionieri di vacuità.

Dalla duplicità alla nullità

Decostruzione attiva: così si può definire uno spazio nel quale convivono l’angoscia, seduta in mezzo al deserto, intenta a fissare un pozzo d’acqua fresca; e la felicità post-moderna che invece costruisce sempre pozzi nuovi in piena metropoli. Se il sistema dissociativo funzionasse, una scorta infinita di opzioni darebbe quel puro piacere beatifico che l’uomo va cercando, invece il vuoto lasciato da facilità, immediatezza e autoconservazione, si rivela versione disonesta della domanda di senso. La parcellizzazione individualizzata e svincolata assolve dalla risposta all’interrogativo esistenziale, ma si pone, coerentemente con l’epoca, modalità innovative per riformularlo senza focalizzarlo. Liquefacendosi la società e insieme il soggetto, non tollerano datità, evitando in questo modo di incombere in privazioni, menomazioni, mantenendo il retrogusto amaro dell’assenza, percezione tipica di chi conquista scopi a breve termine ed ego-centrati, alimentati da insopprimibile intolleranza nei confronti di relazioni segreganti, valutate con mezzi forniti da un sistema culturale improntato sull’efficienza, il benessere largamente inteso, la soddisfazione dei piaceri e la stima di sé-realizzazione personale. Ovviamente non vi è margine per la precarietà, insopprimibile tratto decisivo dei soggetti in causa, così come non è concepibile il pensiero di un progresso ancora arreso alla morte, alla vecchiaia, alla sofferenza o alle paure: questi fattori sono  obblighi che scaturiscono o causano incapacità per gli individui-atomi di spingersi oltre sé – oltre gli altri. Occorre che non restino vuoti i magazzini d’emergenza, zeppi di scorte per inverni freddi. La duplicità rimanda ai «corpi docili» del panoptismo  foucaultiano, la cui visibilità è una trappola:[4] costretti all’esposizione e all’assoggettamento, il sistema biopolitico ha fatto un salto storico di qualità dalla violenza sui corpi, alla loro normalizzazione disciplinata. Il corpo non è inerente alla persona, i due coesistono forzatamente, ed è solo questa misurazione a far sì che l’azione su di essi possa raggiungere legittimazioni che non avrebbe se fosse valutata in rapporto ad essa nella sua totalità. Il dualismo converte in questa visione la quale, nella società liquida, si compiace di un laissez-faire sui corpi apparentemente libero, ma di fatto incatenato a sovrastrutture che ne meccanicizzano gli aspetti propriamente umani. L’esito sono individui-manichino identici fra loro, codificati, anonimi e standardizzati a norme prestabilite per i liberi, in questo senso “nulli”, dittatori della non-norma, ovvero patrioti di giustizia relativa il cui primo comandamento si annuncia «non decidiamo che cosa sia giusto, ma consideriamo giusto non deciderlo».[5]

“Ego-sessualità”

Dualismo-scissione e vissuto parcellizzato sono termini chiave della concisa disamina antropologica appena fatta e proprio coerentemente con la prospettiva intrapresa, anche l’intimità dell’uomo, quindi l’origine dell’origine, subisce e forse amplifica lo sfratto dalla creatura, dalla sua propensione sia al trascendente sia all’altro diverso da sé. Dissociarsi dalla propria identità e non riconoscersi in niente per poter essere tutto, è un atteggiamento onnicomprensivo al punto che anche una sfera tanto intima come la sessualità risente di questa astrazione, addirittura riuscendo (o forse dovendo?) a biologicizzare drasticamente l’incontro tra i due, in un appuntamento tra single la cui portata egocentrica sfocia nel piacere dell’altro come oggetto di consumo/soddisfacimento. Dalla cosificazione ideale del (o della) partner si è arrivati alla reale oggettificazione estremizzata in progetti tecno-scientifici il cui principio è l’erotismo consumistico, così «il desiderio si sposta, la privazione ha generato la domanda»[6] e alla domanda l’epoca contemporanea risposte con il piacere. Il caso di particolari intelligenze artificiali, cosiddette “bambole del sesso”, nuovo traguardo del progresso scientifico progettato per non lasciar alcuna fantasia preda di sogni senza speranza, ne dà testimonianza. Sex-robot con personalità programmate-definite, rivestiti di finta cute siliconata piacevole al tatto, aventi scheletro mobile e tratti somatico-estetici, anticipatamente commissionati, selezionati e combinati tra caratteri offerti dall’azienda produttrice, il più possibile somiglianti all’immagine mentale del cliente. I padri creatori di questi umanoidi sessuali stanno lavorando per oltrepassare i risultati già ottenuti tentando di raggiungere un livello interazionale tale da suscitare una sorta di “attaccamento amoroso” nei confronti dei robot. A che scopo? Chiaramente ,il venir meno di complicazioni dovute ai legami affettivi che il soggetto perfetibile è spinto a instaurare, favorisce dedizione efficientista, la quale si alimenta dell’isolamento depersonalizzato. Rifondare una società atomizzata, immune al contagio di relazioni patologiche i cui sintomi si manifestano in affezioni limitative e nell’esposizione alla vulnerabilità, relativizzando e soggettivando in chiave utilitarista ogni suo termine, è producente per futuristi e transumanisti che cooperano alla filosofia dell’immortalità. Perché prodigarsi in tecnologie dissociative tra uomini e associative tra uomini e artefatti? Residua biologia (e non ontologia) del corpo lo riduce alla pochezza della carne saziata da un’ego-sessualità: la misura dell’incontro si separa dalla condivisione per centrare tutto sul godimento esclusivamente personale, ne nasce l’estraneità tra i due per i quali poca importanza assume la biografia di un corpo, conta che quella sagoma si renda servizievole secondo necessità. I due percepiscono un contatto solo con se stessi, forgiandosi con il solo appagamento. Lo scatto decisivo è la caduta nell’insignificanza: l’amplesso amorfo è il manifesto particolareggiato dell’indifferentismo scientifico-filosofico per l’irripetibile unicità di ogni concepito, sicché si sorpassa la complementarietà di persone banalizzata a complementarietà di organi impegnati in consuetudinarie funzioni fisiologiche. L’insignificanza è la liberazione dalla conservata consapevolezza che l’intimità è vulnerabilità, la vulnerabilità è finitezza e la finitezza è accettazione dell’altro.[7]Averne coscienza non avvalora la persona (venuta meno), anzi è la sua rarefazione. Allora, imputridita, tenta, mediante la tecnica, di non vedersi per togliersi dal tormento di non avere altro da dare a se stessa che l’umano. Nasce l’oltreuomo: «Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: sia il superuomo il senso della terra!»[8]

Soffrire per dirsi reali: tra angoscia e possesso

Un parco per i vizi, un mondo per compiacere gli istinti più bassi (omicidi, torture, violenze, stupri), senza regole, giudizi o responsabilità: Westworld, serie televisiva neonata, è il ri-prodotto cinematografico del suo antenato datato 1973. Una realtà distopica abitata da umanoidi e umani (ospiti) disposti a calarsi in narrazioni fittizie sorvegliate/scritte da esperti ingegneri intenti a mantenere alta l’efficienza del gioco, possibile solo se le macchine si conservano come tali. Westworld, in dieci episodi, fa decrescere l’uomo a bestia, lo ammanta e lo sporca di vizi, crea onnipotenza mortale (mediante immortalità circoscritta) e fa del dominio un talento, sia esso per mani umane o robotiche. Tocca il fondo l’omino che gioca alla libertà pagando per sentirne un gusto chimicamente deformato, ingannevole: poter uccidere e non essere uccisi,  restare scoperti e guardare le conseguenze di azioni deliberatamente scelte senza per questo subire un coinvolgimento personale, è la fonte della bassezza. Tragicamente quel possibile post-umano si compiace di ciò che comunemente sanzionerebbe senza esitazione: tendenzialmente l’errore si condanna per assenza di conoscenza del bene e talvolta anche del male che gli fa seguito; qui l’errore è la bellezza di uomini non tolti dall’umanità perché ridotti alla grezza animalità, ma tolti dalla bestialità per poter essere uomini. La logica è permettere di fare ciò che è proprio della nostra specie, ovvero ciò che questa ha categorizzato socialmente malevolo. Depravazione e perversione rispondono non al robot, ma all’uomo-macchina reale che si fa artificio per concedersi alla neutralità, succo acerbo reso più appetibile da soddisfazioni cieche. Così l’androide non desidera essere umano, ma l’umano crea le condizioni per poter agire come androide secondo ripetitività, abilità, monotonia e apatia, secondo l’elaborazione scientifica di futurologi che domandano come redimere l’umanità da aspetti non-necessariamente-umani.[9]

Sbrigliati dalla datità naturale, gli ospiti padroneggiano su esseri inferiori scortati dall’insufficienza permanente anche di quella nuova statura concessagli: l’errore è concesso ai residenti non a chi ne fa uso, uomini-dèi per i quali fallire è un’impossibilità naturale, ma essere soggiogati dal loro stesso creare è il nuovo libero arbitrio. Come se cedere nella vita reale fosse una colpevolizzazione o una punizione che meritiamo per gli sbagli della nostra manchevolezza, si mettono a disposizione spazi e luoghi in cui il pentimento perde significanza e l’ingiustizia non trova ragioni dal momento che bene e male, giusto e sbagliato potrebbero darsi solo fra soggetti giuridici, cosa che gli oggetti non sono. Il post-umanesimo, sapientemente incarnato in Westworld, fa perno sulla signoria dell’Io mentre, paradossalmente, si adopera perché questo non abbia più chiara assunzione di sé. Se fosse sufficiente desiderare per consumare e dissolvere, quale scopo avrebbe tentare ostinatamente di confondere gli ospiti in un laborioso distinguo tra i loro simili e gli anormali nell’intento di sopraggiungere all’identificazione tra i due? Retrocedere subisce la caparbietà dell’orgoglio, pertanto, una volta sovraccaricato il limite, continuare appare l’unica via percorribile. Così, l’ascesi dal mondo delle sofferenze a quello del piacere, non può che ricadere nel primo per dirsi reale: la mortalità e le sue peculiarità definiscono il senso dell’esserci umano; tolto questo egli è sperduto. Il cuore della serie non si mostra come la massimizzazione del godimento umano omicida o voyeuristico , al contrario parla agli ospiti di quanto la normalità terrena sia vera in ragione delle sue debolezze: la miseria è l’unica sazietà indeterminata, il resto sono sfoghi estemporanei con tornaconto nullo, che conducono gli omini all’invenzione di posti come il parco; per questo quando i robot iniziano ad avere ricordi, nelle rimembranze dolori e nei dolori un’etica, avvertono la prevaricazione e l’oltraggiosa vergogna. Quest’ultima in particolare, apparentemente sentimento scomodo che tra i residenti vigeva misconosciuto, presenziava nell’appannaggio di tecnici di laboratorio che, sentendo di operare oltre la mortalità, coprivano l’impudicizia allo sguardo vuoto di manichini al rodaggio, preservando più istintivamente rispetto agli altri istinti lì esaltati, quella mistica del pudore capace di cogliere il sublime soprasensuale umanamente inteso; invece conoscere ogni ingranaggio di un sistema toglie la riverenza di chi non osa per assenza di consapevolezza. Il disatteso è lo scarto del folle. Così, nel momento in cui i residenti paventarono una coscienza di sé, l’immagine-i ricordi- della tracotanza umana che  faceva di loro puri «oggetti di piacere» ha spento la luce che gerarchizzava la loro specie dal dolore della mente creatrice e riconobbero nella mortalità una miseria maggiore: la codardia di esistere senza darsi un fine ultimo, ingannati nello loro genialità dalla dipendenza di mezzi informi.

Onnipotenza mortale

Tutta la dicotomia simbolica dei colori bianco e nero è metaforicamente il richiamo all’assoluto del bivio bene-male vanificato e minimizzato a preferenze circostanziali e relativizzanti. Psicosi da dominio, fobico «antropodecentrismo»[10], per trovare riparo in garanzie fittizie di ristagno per nodi problematici latenti ai margini del labirinto, della coscienza, dove è la diversità a giostrare il conflitto e il confronto, non passività o impotenza. Accettare la libertà dovuta all’assoggettamento tecnocratico è uno sconto per arginare la fermezza della scelta, di nuovo in opposizione alla liquidità di potersi costruire; essere qualcuno in un contesto scivoloso espone al sacrificio e ripristina funzioni incomprensibili, emozioni distoniche, sperimentazioni inconclusive del proprio Io. Dimensioni transumane e innovative come Westworld traumatizzano perché si posizionano molto vicine ad un futuro prossimo fungendo da campanello d’allarme: la mosca, simbolo di caducità e decomposizione, dall’inizio alla fine della serie poggia la sua animalità sulla freddezza composta di androidi spenti e non ospiti vivi, quasi a schivare il timore che, insieme all’umanità, venisse tolta anche la fine, allora sì che l’estinzione avrebbe preso avvio grazie all’immortalità. Tutto si esaurisce con il suicidio della mente: la sua ipostatizzazione non dà potere all’uomo, ma solo alle opere il che significa addurre «l’abolizione dell’uomo» per consacrarne la genialità cognitiva. Un sistema mortale che collassa per mani mortali.  L’ingegno muore da braccia meccaniche sotto lo stimolo involontario di coscienze intorpidite, luci soffuse d’intralcio al sonno dei viventi. La ribellione del fantoccio ha conosciuto l’uomo, da suo dio a suo adepto.

[1]          DERRIDA, J., Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 20

[2]          Ibid., p. 23

[3]          BAUMAN, Z., Modernità liquida, Editori Laterza, Bari 2011, p. 11

[4]          FOUCAULT, M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1975, 1993, p. 128

[5]          CHESTERTON, G. K., Eretici, Lindau, Torino 2013, pp. 24-25

[6]          D’AVENIA, A., L’arte di essere fragili, Mondadori, Milano 2016.

[7]          http://www.notizieprovita.it/filosofia-e-morale/sesso-tra-uomo-e-androide-la-nuova-frontiera-del-love-is-love/

[8]          NIETZSCHE, F., Così parlò Zarathustra, Bur Rizzoli, Milano 2012, p. 28

[9]          BOVASSI, G., Elaborato finale, L’eco della solidità. La nostalgia del richiamo tra antropologia liquida e postumanesimo, Master in consulenza filosofia e antropologia esistenziale, UPRA, Roma 2017.

[10]          www.scienzaefilosofia.it/res/site70201/res647579_27-RECMARCHESINI.pdf

 

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