Babilonia, ovvero il presidente degli altri

 

Babilonia, ovvero il presidente degli altri

Pochi uomini, di quanti ne sono stati trasferiti, in questi anni di Repubblica, sul colle del Quirinale con la teleferica dei partiti, sembrano potersi fregiare del titolo di Presidente, se é stato assunto in rappresentanza degli Italiani. Non Leone, che aveva indossato la toga per difendere la SADA/ENEL dalla recriminazione dei morti e dei dispersi nella tragedia del Vajont. Dato, però, che in questo Paese, per la par condicio, debbono essere fatte delle concessioni al risvolto melodrammatico delle cose, Leone, accusato da certa pubblicistica da trivio di avere   per testa una chioma d’albero, ne offrì un rametto agli studenti di Pisa che lo contestavano, e lui finì li, prigioniero, per sua fortuna, di uno scatto e di un’istantanea  che lo toglievano dalla lista dei presidenti peggiori per collocarlo in quello dei colleghi che non avevano fatto niente, che erano passati, inavvertiti, col giallo a tutti gli incroci insidiosi della politica italiana.

Non Ciampi, che odorava di aria condizionata come tutte le persone che consumano la propria vita in un ufficio pieno di brogliacci e di cifre. Quando entrò al Quirinale aveva già disposto di tutti i bonus che gli erano stati conferiti per aver favorito, dismettendo le aziende pubbliche, l’asservimento del sistema Italia alla Finanza speculativa: l’inizio della parabola discendente che é stata scandita, in tutti questi anni, dall’essere diventati i destinatari del triangolo nell’orchestra internazionale, terra secca per una gioventù disperata, il ritorno dal futuro -negato – con una valigia di cartone.     

Non Napolitano, per aver vissuto tutte le sue stagioni agli antipodi, – lui di là e l’Italia di qua – ancor prima di essere incoronato primo cittadino della Repubblica. Gli anatemi lanciati nel “56 contro i ragazzi di Budapest furono il proemio delle sue intemerate rivolte al Paese che si stringeva a sé per tutta la lunghezza delle proprie braccia, come per proteggere la poca sovranità che gli era rimasta dalle mantidi di Bruxelles, e il logico corollario – procedendo a ritroso – di una storia di sordide nefandezze perpetrate a danno degli Italiani: quella che si riassume nella restituzione, per il tramite del signor Monti, dei due marò agli Indiani, e nella decisione di  alienare all’Italia la residua influenza che essa aveva sulla Libia di Gheddafi, per consegnarla ai Francesi.

Una volta si usava l’espressione ‘traditore della Patria’, ma questo é antiquariato lessicale, spadroneggiano le tarme e i tarli.

Un discorso a parte é quello che concerne Cossiga. Quando si parla di Storia – e si tratta, appunto, di una fattispecie che si é già sottratta ai fondali bassi ispezionati dalla cronaca – fa la differenza il particolare punto di vista dal quale uno la osserva. Quella del picconiere é la narrazione più gettonata. Personalmente, ho avuto molto riguardo per la scena in cui lui incontra Adriana Faranda, la pasionaria delle BR, in uno studio televisivo nel 2005. “Il set….”, é un’autocitazione dal libro ‘Ecce Moro’, “…sembra essere quello di ‘Ultimo tango a Parigi’. Una stanza disadorna. Lui e lei. Nelle soffici dissolvenze del chiaroscuro lei secerne una sensualità aristocratica, e lui la ripaga con un’affettazione impacciata e paterna. Ma la loro storia, lontana anni luce dalla licenziosa improprietà di un panetto di burro, suggerisce piuttosto l’idea di due reduci che abbiano combattuto una lunga guerra sotto la stessa bandiera, solo che lui aveva prestato servizio nel Genio Pionieri, e lei, invece, come ausiliaria nella Marina. Oh Adriana! Oh, Francesco, quanto tempo é passato!”.

Ecco, non si può, a mio avviso, dissociare la figura di Cossiga dalle forme più esasperate dell’atlantismo, quasi una religione. Dirà di essersi svegliato  spesso di notte, tremante e madido di sudore, per il rimorso di averlo ammazzato, lasciando intendere che quella mattina, davanti al cofano posteriore della Renault 4 che gli si era aperto come una conchiglia per mostrargli il corpo rannicchiato e grigio di Moro, in realtà c’erano due Cossiga, uno dei quali dialogava in silenzio col collega morto, e l’altro suggellava con la propria presenza la conclusione di tutto l’ambaradam, fatto di tradimenti e di inganni, che era stato allestito da più parti per eliminarlo insieme ai suoi pericolosi sofismi, le convergenze parallele, il compromesso storico, quel piccolo ragno – grande nelle intenzioni, temerario il disegno – che tesseva, giorno dopo giorno, la propria tela al centro della tempesta.

A Cossiga si può rimproverare di essersi mosso sulla scena di quegli anni terribili con la lancetta fissa sul minimo sindacale del sentimento, algido come un robocop, non già di non essere stato – a modo suo – un patriota: una qualità che non compare nella scheda segnaletica di Mattarella. I diciotto pescatori finiti nella rete dei libici sono una recidiva, tranne che per le proporzioni, dei duemila morti di Longarone e dei due marò ripresi per le orecchie e riportati – obbedisci a papà – a casa dell’orco. Ma c’é da chiedersi come abbia fatto questo presidente a non sciogliere le Camere quando, dopo aver compiuto una goffa giravolta, da vecchio ballerino artritico, i Gialli si sono catapultati tra le braccia dei Fucsia, facendosi beffe di due principi morali consustanziati con la prassi politica. Il primo é che non puoi portare in dote a Caio (togliendoli dalla disponibilità di Tizio), i voti che ti eri guadagnato perchè all’elettorato avevi fatto credere che te ne saresti avvalso contro di lui: si chiama truffa, un reato che il codice penale annovera tra quelli meritevoli di galera, ossido di carbonio anche per una democrazia di cui sia rimasta in piedi solo la facciata, i palazzi di Dresda e di Coventry il giorno dopo.

Il secondo é che così si esce dal quadrato della politica e ci si rincorre, fingendoci incazzati,  in tutt’altro posto, magari per prendere un caffè insieme, al riparo dagli occhi indiscreti, ma questo é manicomio, é babilonia, é la negazione stessa della politica, soprattutto se, poi, per ogni singolo punto del tuo programma elettorale, fai l’esatto contrario di quanto v’é scritto, una serie di crocette e di tacche sulla lavagna, che da nera é diventata bianca da un pezzo.

Ai vertici d questa composizione astratta, creata da scimmie, c’é Mattarella. Non si vede e non si ode. A sentirsi, invece, si sente. Quando, venendo meno alla consegna che gli viene fatta dalla stessa Costituzione, di una vigile imparzialità, fa sapere ai seguaci di Grillo e Di Maio che debbono approvare il MES perché, altrimenti, il Governo cade e si deve tornare alle urne: c’é anche una strizzatina d’occhio, con l’occhio sinistro, per quanti fossero lenti nell’afferrare l’antifona.

Mattarella si sente quando, con la sua faccia da vecchia maestra alle soglie della pensione, legge la pagella dell’Unione Europea, e sono tutti dieci. Si sente quando non sente che é giunta l’ora – da milioni di ore – di revocare le onorificenze date a Tito per essere stato un boia efficiente con gli Italiani.

Mattarella si sente anche quando – il più delle volte – si annuncia con gli ultrasuoni e parla in playback, come fece Bobby Solo il giorno del suo esordio a Sanremo, ma non incanta nessuno. Perché lui é il presidente. Il presidente degli altri. 

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