Biancaneve e i 1000 nani, ovvero la ballata dei due sicari

 

Biancaneve e i 1000 nani, ovvero la ballata dei due sicari

È da quasi trent’anni che l’Italia detiene un triste primato: quello di essere assurta, come Stato e come nazione, a banco di prova di un’agenda visionaria, redatta dalle élite, nella quale campeggiano due grandi obiettivi, uno complementare rispetto all’altro, che corrispondono all’abrogazione dello Stato – inteso come vasca di compensazione di una serie di interessi e di bisogni altrimenti inconciliabili – e alla dispersione, in una sorta di fall-out apparentemente casuale (la famiglia, le tradizioni, gli statuti stessi della procreazione e della morte), di tutti i fattori che contribuiscono a trasformare un agglomerato di individui in una comunità organizzata sotto forma di Nazione.

Tutto cominciò nel 1992, allorché un’inchiesta giudiziaria, partita da 14 milioni di tangente pagati ad un ospizio milanese, piombò sul sistema Italia (il ballo della mattonella del potere politico e dell’economia, in cui era lui a dettare il ritmo, assecondato dalla sua partner) e lo rase al suolo. Non solo Craxi, che spiegò in tribunale a Fouché- Di Pietro che “così fan tutti” e qualcuno (il PCI) anche di peggio, facendo la cresta sull’import-export coi Paesi antagonisti della NATO. L’espressione mefistofelica del pubblico ministero dava già una risposta alle domande ‘intelligenti’, che sarebbero arrivate solo molti anni più tardi, quando la questione morale, che aveva saturato le menti deboli e le pagine dei giornali, cominciò a diradarsi per fare emergere i contorni di uno scenario assai più arruffato di una favoletta dei Grimm.

A consuntivo, crollarono, uno dietro l’altro, come le tessere del domino, tutti i partiti della Prima Repubblica, e seguì – era questo il vero obiettivo – la fine della ricetta economica che aveva fatto grande l’Italia, conferendo allo Stato, attraverso l’IRI, il Ministro per il Commercio estero e le Partecipazioni, per l’appunto, statali, il controllo sulla ricchezza prodotta dall’apparato industriale e sulla concorrenza internazionale. Con le privatizzazioni – un sabba al quale parteciparono quasi solo imprese straniere – l’Italia alzava bandiera bianca, e non ci fu verso, forse a causa dei media, ammaestrati – hasfidanken – dai poteri forti, che qualcuno si chiedesse come mai ‘Mani Pulite’ avesse glissato su Greganti e sugli introiti illeciti del PCI.

Se ciò fosse accaduto, si sarebbe arrivati alla facile conclusione che il  partito comunista, già pronto per diventare lo scarafaggio di Kafka e quindi per riempire, almeno in parte, il vuoto lasciato dietro di sé dalla Prima Repubblica, era stato individuato dai corifei del Pensiero Unico come la pietra angolare di un nuovo soggetto politico che fosse in sintonia con la filibusta di Bruxelles, che suffragasse l’annessione facendo finta di aver compiuto una libera scelta, che sacrificasse gli interessi dei cittadini alle logiche sataniche del Mercato.

Il golpe giudiziario, per il quale fu reclutato un ex poliziotto e gli fu messo intorno un pool di magistrati, catafratti come armadilli, sancì la resa della Politica ai capitani dell’Alta Banca: una strozzatura innaturale, la limitazione degli atti a quelli che concernono il giorno d’oggi e il giorno dopo, la soppressione dell’orizzonte.

Ad altri Paesi, che non avevano e non hanno l’invidiabile complessità dell’Italia, la rinuncia alla discrezionalità sull’uso sociale delle risorse finanziarie é stata imposta coi bombardamenti, come nel Cile, in Iraq, in Libia, in Serbia, o con la creazione di ‘primavere’ artificiali, come quella che, nell’89, ha fatto chiudere i battenti al regime di Ceausescu in Romania o quell’altra, più recente, che ha flagellato la Bielorussia di Lukashenko: sempre lo stesso spartito, l’acceleratore pigiato sui diritti civili – tante belle parole scritte sull’acqua – e l’altro piede che affonda sul freno per comprimere e mortificare i diritti sociali, il lavoro, la casa, la scuola, l’ospedale al posto del lazzaretto.

Tutto il tempo che è trascorso tra il 1992 e il 2013 è quanto ne occorreva per completare la parabola discendente della politica, la sua fase anoressica, intervallata da sketch orrendi, quali il bungabunga di Berlusconi e le dimostrazioni di odio verso i propri connazionali offerte in presa diretta da Sade Monti, impresa per la quale gli è stato conferito il laticlavio perenne, un mantello di porpora coi risvolti d’oro.

L’ultima finestra, di quelle che si aprono su di una serie e che prendono il nome da Overton – la serie che si potrebbe definire della ‘politica miserella’ – si è chiusa convenzionalmente il 25 febbraio del 2013, col trionfo elettorale dei Cinque Stelle, che si accingevano a sparecchiare il tavolo e a ripulirlo dalle molliche della politica.

Iniziava da lì’, dall’ingresso sul palcoscenico di Grillo – un buffone, un comico – mentre tutt’intorno si diffondevano le note encomiastiche dell’Aida, il lungo viaggio del movimento inventato dai Casaleggio e da Sassoon (massoneria quanta ne vuoi, ce n’é per tutti e per tutto) perché conquistasse palazzo Chigi e desse lezioni sull’ineluttabilità di un teorema, quello secondo cui la politica, affrancata dall’obbligo di provvedere agli affari economici, é così poca cosa che può essere anche dispensata da quello di esistere: la morte che ti accoglie leggera come una carezza, il trapasso senza che te ne accorgi,  pietosa e al tempo stesso  sorniona come l’eutanasia.

In effetti, una volta eliminata la responsabilità di dover decidere e di scegliere, anche gli idioti – purché facilmente manovrabili – possono entrare a far parte del Parlamento o sedersi sugli scranni riservati agli esponenti del Governo. Anche chi non capisce nulla di Storia e di Geografia può diventare ministro degli Esteri, e la nomina a presidente del Consiglio di un avvocato – uscito all’improvviso dagli anfratti reconditi della cronaca e della Storia – sembra anch’essa assumere il valore di una perorazione scientifica giacché gli avvocati non avvertono alcuna difficoltà nel passare dalla difesa degli assassini a quella delle loro vittime – è il loro mestiere – e non ne hanno neppure se, chiamati a far finta di svolgere un ruolo politico, si spostano dai territori del  diavolo a quelli dell’acqua santa, da destra a sinistra, così, d’amblais, oppure se prima ne dicono una e poi ne dicono un’altra, di qualunque argomento si stia parlando.

Insomma, costretti dall’esiguità dello spazio a concludere, mi pare che convenga richiamare l’attenzione di chi legge sul fatto che il destino di questo Paese sia stato stabilito – a riprova della mediocrità dilagante – da due mezze figure, da un certo Di Pietro e da un certo Grillo – e sul fatto, infine, che il pugnale abbia steso non la democrazia – che è un’ipotesi riduttiva- ma la politica tout court, declassandola a salottino per mignotte prima ancora che finisse preda del nulla.

Non avevo citato i Grimm così, a caso, giusto per dare un po’ di colore al post. Ho sempre amato le storie che finiscono bene, sotto il segno di una squassante redenzione, così Cristo, così l’araba fenice, così Biancaneve che si ridesta dalla letargia gelida della morte, dopo essere stata baciata da un principe di passaggio. Solo che qui i nani non sono sette. Sono centinaia e migliaia. E la strega cattiva ha figliato a rotta di collo come una femmina di coniglio.

Quanto al principe, ho la vaga impressione che non debba limitarsi al bacio, ancorché importante e profondo, ma fare molto, molto di più, con un berretto frigio in testa. Un po’ di sana perversione non guasta.

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