Bresson, la poetica della sottrazione

 

Bresson, la poetica della sottrazione

Vent’anni fa, esattamente il 18 dicembre 1999, sabato che precedeva la quarta domenica di Avvento, ci lasciava il regista francese Robert Bresson. Attraverso di lui vorremmo qui accendere una scintilla capace di dare una diversa luce alle nostre Festività Natalizie, un richiamo per questi tempi assordanti e illusori.

«Una volta un saggio disse che il peccato è tutto ciò che non è necessario. Se questo è vero, allora tutta la nostra civiltà è fondata sul peccato, sul non necessario, dall’inizio alla fine». Ci sia consentito di far partire il discorso citando un film non del Nostro. Qui infatti a parlare è il personaggio di Alexander nel film Sacrificio di Tarkovskij, ma questa espressione rappresenta perfettamente l’idea di cinema e della vita di Bresson e descrive, ahimè lucidamente, i nostri tempi.

Bresson è l’autore della purezza dello sguardo, dello sforzo tenace, ma paziente di educare l’anima a togliere il di più che ci impedisce di vedere la realtà. Osservare vuol dire separare, isolare le parti. Mani, piccoli oggetti, piedi, movimenti e gesti, maniglie che si piegano, porte che si chiudono. Separarle per dar loro una nuova dipendenza, un legame. Questo è il mondo frammentato che racconta Bresson, l’unica possibilità per non cadere nella rappresentazione, ovvero nella falsità. Così dalle piccole cose fuoriesce come per incanto l’anima delle cose stesse. Citando Montaigne «ogni movimento ci rivela»; è il quotidiano che viene trasceso dall’occhio vigile della macchina da presa. Via tutti gli orpelli e i trucchi; via tutti gli accessori.

Lo sguardo di Bresson è per così dire già “religioso” senza dover presentare personaggi dall’evidente carattere biblico. Lui non voleva mostrare la presenza di Dio direttamente, ma lasciare che lo spettatore la percepisse, così come accade – a chi è in grado di “vedere” – nella vita ordinaria di tutti i giorni. In fondo la “nascita spirituale” è appunto questo, ovvero vedere ogni cosa come sacra, vedere l’intera Creazione e ogni uomo con gli stessi occhi di Dio, raggiungere la limpidezza. Tutto il resto sono semplici strumenti, ma è solo del traguardo che dobbiamo preoccuparci.

«Il cinema è l’arte del non mostrare nulla», asseriva. «Il problema con molti film è che spiegano tutto». Quanto è arduo esprimere le cose con il minimo di mezzi, eppure quanto è necessario! Il cinema ci ha invece assuefatti alla saturazione di ogni inquadratura con musiche, preziosismi di luce, effetti, trucchi, e tutto questa sovrabbondanza del mostrare, in realtà non rivela nulla. Appiattisce e non scava. Inorgoglisce il sentimento, mentre uccide la vera emozione. L’uomo odierno non è più capace di evocare, di leggere l’analogia fra gli esseri, non sa vedere la realtà in trasparenza. Bresson riteneva che i film andassero sentiti, piuttosto che compresi. Come lui lavorava sul set attraverso l’intuizione, così deve fare lo spettatore. Il caso, l’inatteso, lo sconosciuto: questo è ciò che il regista francese ricercava attraverso il suo modo di fare cinema, questa è in fin dei conti la vita che affiora dagli spiragli che inavvertitamente le abbiamo lasciato. Non a caso, egli così minimale nella messa in scena, prestava una cura eccezionale ai suoni, li trattava come veri e propri “attori”. «L’orecchio è profondo, mentre l’occhio è frivolo, si soddisfa troppo facilmente. L’orecchio è attivo, immaginativo, mentre l’occhio è passivo. Quando senti un rumore di notte, immediatamente tu immagini la causa. Il suono del fischio di un treno fa apparire l’intera stazione. L’occhio può percepire solo ciò che gli viene presentato». Ovviamente questo è l’occhio esteriore, ma l’udito precede e prepara il risveglio dell’occhio interiore. Al contrario, egli evitava la musica, «perché la musica ti porta dentro un altro reame». Da un certo punto in poi della sua produzione artistica essa compariva solo alla fine del film per accompagnare fuori lo spettatore; vedasi ad esempio il Magnificat di Monteverdi sulla chiusura della scena finale di Mouchette. Noi invece siamo ormai incapaci di rinunciare alla musica, e non solo nel cinema. La musica rafforza un’immagine e un sentimento, ma questo solo perché l’immagine di per sé è mancante e falsa, anche se noi non lo percepiamo. Noi non sentiamo, non vediamo, non comprendiamo pressoché nulla, ma ovviamente ci illudiamo di farlo. L’uomo non potrebbe del resto vivere senza credere di vedere, di comprendere, persino senza credere di credere. Ognuno secondo la propria ideologia e persino la propria “religione”: in fin dei conti, allo stato attuale delle cose, la differenza è solo epidermica. L’illusione è il diabolico farmaco che tiene in vita un’umanità in sé già defunta.

Una poetica di sottrazione, del non mostrato: questo è il cinema di Bresson. L’essenziale radicalità delle cose, nell’arte come nella vita. «Quando le persone divengono così materialiste, la religione non è possibile, perché ogni religione è povertà e la povertà è il modo per entrare in contatto col mistero e con Dio». E non di sola povertà fisica qui si parla! Il Natale ci evoca questa povertà. L’umanità sprofondata nel suo punto più basso, conobbe una luce che rischiarò l’intero Cosmo. Non tra i palazzi della città, ma lontano dagli sguardi impreparati e seducenti, nasceva Nostro Signore, perché «non c’era posto» per Lui. In una Notte dove tra le mille e mille stelle, giunse la Stella che veniva dall’Oriente. E i Magi ne avvertivano pur il suono, nei silenzi del loro cammino, ne siamo certi.

Questo ci dice oggi Bresson, sul nostro Natale, sulla nostra vita, se ancora vogliamo riacciuffarla, prima che si dilegui nel vuoto luccicante di questo mondo. «Non bisogna cercare, bisogna attendere», perché «il cinema è immenso, e non abbiamo ancora fatto nulla». L’Avvento è periodo di attesa, ma tutta la vita (terrena) è attesa della vera Vita. E l’attesa è confidenza con l’inaspettato, è abbandonare ogni ansia e imparare finalmente ad osservare, perché in ogni momento la realtà ti parla dandoti del tu. «Non correre dietro alla poesia. S’infila da sola nelle giunture».

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