Brutte storie


 

Brutte storie

Sarà perché sono un po’ allucinato, a causa dei troppi ragionamenti fatti in orario notturno su come si sviluppa la trama di certi avvenimenti, che appaiono ineluttabilmente estranei l’uno all’altro, ma ho buoni motivi per credere che quando la storia di questo paese abbandona il moto rettilineo uniforme, che é proprio delle circostanze di luogo e di tempo che hanno tra di loro un nesso consequenziale, e compie una sterzata improvvisa, lì, sullo sfondo, irrompono al galoppo i tre cavalieri dell’apocalisse, sotto forma dell’intelligence angloamericana, della Mafia che indossa i paramenti dell’agente politico, e dei soldi, dei  quali – direbbe Travaglio – si avverte a malapena solo l’odore, giacché, quando sono pochi risalgono in superficie, a differenza di quando sono molti e sogliono nascondersi, forse per il peso,  nell’oscurità degli abissi.

Nel luglio del 43 la Mafia, che si era trasferita negli USA a seguito delle assillanti premure del prefetto Mori, ritornò in Sicilia e vi costituì una testa di ponte, per gli Alleati.

Nell’estate del 1992, nell’arco di soli tre mesi, morirono i giudici Falcone e Borsellino, per mano delle cosche, che avevano trovato comodo alloggio  nella carne molle dell’ordinamento democratico, e il panfilo ‘Britannia’, di proprietà della regina Elisabetta, buonanima, si materializzò il 2 giugno, non casualmente proprio per la festa della Repubblica, al largo di Civitavecchia, imperioso e torvo come l’olandese volante, per offrire ricetto a quanti, compreso Draghi, spiegassero come meglio ridimensionare l’Italia, all’indomani dell’imperdonabile ‘sgarro’ di Sigonella, e dopo tutti i tentativi che si erano compiuti, in via del Corso 476, per ridurre la dipendenza del Paese dai vertici di Bruxelles e per dare vita ad un’enclave strategica, con l’interessamento degli stati africani bagnati dal Mediterraneo, che gli consentisse di alleggerire la presa al collo da parte della NATO.

Nessuno – che io ricordi – seppe domandarsi cosa vedessero gli Americani dal loro loggione proteso sullo stivale allorché non c’era rimasto quasi più niente della vecchia partitocrazia, demolita per conto loro da ‘Mani Pulite’, e il PCI si stagliava, assolutamente intatto, su questa distesa di rovine come il ‘Genbaku Domu’ che era scampato alla distruzione di Hiroshima.

Se lo avessero fatto, con ogni probabilità si sarebbero risposti che la palingenesi del partito comunista, da cellula aliena del PCUS finita dietro le linee dell’Occidente, a formazione pronta per essere incorporata in  un nuovo sistema politico che parodiasse il bipolarismo americano, era già iniziata ai tempi in cui Berlinguer asseriva di trovarsi più a proprio agio sotto la NATO che come interlocutore di Breznev, o forse era già in corso quando il ministro degli Esteri  di Botteghe Oscure (nomen omen), Giorgio Napolitano (che sarebbe stato poi ‘premiato’ con due settennati consecutivi, a mò di monarca), faceva nelle università americane il  giro delle sette chiese per raccontare che si potevano fidare dei comunisti italiani, che erano già un’altra cosa: tutto questo mentre un certo Aldo Moro, l’artefice delle  ‘convergenze parallele’ giaceva e moriva in un carcere cosiddetto ‘del popolo’, alla mercé di un americano, di nome Steve Pieczenik, che muoveva coi fili un centinaio di burattini, dalla cabina di comando del ministero degli Interni, avendo al proprio fianco, nelle vesti di accudente, Francesco Cossiga, un altro a cui sarebbero state consegnate, da lì a poco, le chiavi del Quirinale.

Era evidente, altresì, che, se si voleva creare in Italia il duplicato in formato mignon della democrazia americana, basata sulla concorrenza di due forze simmetriche (la teoria dell’aeroplano che non potrebbe mai levarsi in volo e restarvi senza  la spinta dal basso di due ali perfettamente uguali, una a destra e l’altra a sinistra), occorreva sbrigarsi nell’individuare gli antagonisti dei Dem, che avevano, come si dice,  buttato alle ortiche la falce e il martello, anche per evitare che nelle more dell’anomalia provocata dalla perdurante mancanza di alternative potesse attecchire lo spettro dell’eversione e dell’anarchia.

Et voilà, come d’incanto, simili a funghi battezzati dal temporale, vennero fuori le sezioni, le bandiere e l’inno di Forza Italia, ma anche fin troppe persone inclini a  pensare che la leggenda dell’uomo che si era fatto da sé – Berlusconi – e che era disceso nell’arena,  bardato di tutto punto come ‘il gladiatore’ di Russell Crowe, per fronteggiare, coi suoi denari,  il pericolo ‘comunista’ – peraltro del tutto inesistente – non  fosse quella del villico che sostiene di aver fatto fortuna cominciando da due uova prese da sotto il culo di una gallina o non fosse soltanto orecchiabile come una vecchia canzone di Angelo Branduardi: la nascita del polo ‘moderato’, nel quale si stemperarono le prurigini nazionalistiche del MSI e si spense il sogno padano della Lega, furono l’inevitabile corollario di un’operazione per la quale furono impiegate ingenti risorse finanziarie, e ciò lo si deduce facilmente dal fatto che gli USA, per cautelarsi dalle situazioni che  ipotecano il loro dominio su una buona parte del mondo, non escono quasi mai dallo schema che contempla l’utilizzo del dollaro quando sia controindicato quello del piombo.

Molti anni fa – molti anni prima che uscisse il libro di Corvisieri – pubblicai su ‘Il Giornale d’Italia’ una serie di articoli che riguardavano di striscio il ‘gobbo del Quarticciolo’, basandomi, come faccio da sempre, su dei reperti archivistici.

Avevo trovato, scartabellando  nei  fondi del  Viminale, dei documenti dai quali risultava che una delle iniziative messe in atto dalla Corona per prepararsi a competere con i comunisti e coi loro alleati che minacciavano di prendersi tutto il Paese, una volta finita la guerra, fu quella di creare  ex abrupto, dal nulla, un partito, l”Unione proletaria’ il cui unico scopo era quella di  provocare disordini da addebitare agli avversari politici , e di corrodere, attraverso l’apertura di centinaia di sezioni a Roma e nell’Italia ‘liberata’,  il potenziale elettorale della Sinistra massimalista.

Sullo sfondo facevano capolino una potente loggia massonica, chiamata ‘Propaganda’, Edgardo Sogno e anche una  vecchia conoscenza della polizia fascista, quel Pippo Naldi che era stato fatto uscire di soppiatto, nel ’24, da un’uscita secondaria dell’istruttoria sul delitto Matteotti, e che era ritornato in Italia, alla caduta di Mussolini, per servire Badoglio come addetto stampa nel Regno del Sud, dopo aver trascorso quasi tutto il suo placido esilio in Francia accanto ad un petroliere russo, il dottor Stanislas De Lazovert, che, incidentalmente, nel dicembre del 1916, aveva preso parte all’eliminazione di Rasputin.

A parte alcuni elementi di contorno, non noto grandi differenze tra il vuoto pneumatico creatosi alla fine degli anni Novanta per gli effetti prodotti dal crollo della Prima Repubblica, e quello determinato, specialmente nel ’44, da tormentato avvicendamento di due formidabili eserciti sul suolo italiano, dal tramonto di  un regime politico durato vent’anni e dall’alba, piena di incognite, di una nuova  epopea politica della quale nessuno sapeva individuare le caratteristiche salienti , e che  costituiva l’ambientazione elettiva, come nei romanzi di Agatha Christie, per chiunque volesse cimentarsi nell’arte del tradimento, della delazione, della menzogna, della scherma col pugnale lavorato per colpire meglio alla schiena.

Traggo dai primi anni ’50, quelli in cui, da piccolo, percepivo il mondo quasi solo attraverso i sensi, l’ispirazione per capire, sia pure in modo sommario, cosa fosse Roma nel ’44. I lampioni, col disco di ceramica, che diffondevano il surrogato della luce.

L’odore ispido dell’orina che proveniva talvolta dai vespasiani, e assai più spesso dagli angoli tra muro e muro, nella pubblica via. La sputacchiera sul tram inondato di fumo, dal quale, facendo aggio sul predellino, appiccicati l’uno all’altro, sporgevano torme di passeggeri.  In più, come se tanta tetraggine non bastasse, c’erano il comando tedesco, l’insopportabile raucedine degli ordini emessi dagli ufficiali e quell’orrendo rimbombo di stivali che mordevano l’asfalto nelle strade deserte.

Nel ’44 – roba di pochi mesi, da marzo a settembre –  avvenne la strage delle Ardeatine (il 24 marzo), nella quale scomparvero il nucleo direttivo del Fronte Militare Clandestino col suo comandante, nella persona di Cordero Lanza di Montezemolo, e la ‘mejo goventù di ‘Bandiera Rossa’, ovvero delle due formazioni che si proponevano, da posizioni contrapposte, di rivaleggiare col PCI nelle elezioni che si sarebbero tenute un giorno in Italia, a compimento della Liberazione.

Il 4 giugno una colonna motorizzata  di Tedeschi in ripiegamento dalla Capitale per sottrarsi all’incontro con la  Quinta armata americana di Clark, si portò dietro, inspiegabilmente,  l’esponente socialista Bruno Buozzi, che aveva appena sottoscritto nella clandestinità i Patti di Roma, con cui  s’impegnava a ricostruire il sindacato unitario coi comunisti, non appena fosse terminata la guerra, e, altrettanto inspiegabilmente, lo fucilarono, così che – in cambio, forse, di una certa tranquillità nell’eseguire il ritiro da Roma – tolsero di mezzo l’unica persona  che, per la sua esperienza e per la sua notorietà, era in grado di  contendere al PCI la guida del sindacato confederale.

Il 18 settembre, infine,  il direttore del carcere di Regina Coeli, Donato Carretta, che aveva fra l’altro beneficiato, pur essendo fascista, delle referenze di Nenni, e che molto verosimilmente era al corrente di qualche indicibile dettaglio su come era stata compilata la lista dei prigionieri destinati alle cave ardeatine, fu accerchiato e linciato davanti al tribunale dalla folla  aizzata contro di lui da un attivista del PCI, e la Storia, che poteva prendere una piega  avulsa dal canovaccio resistenziale, riprese regolarmente il corso che sarebbe poi stato illustrato  dalla ‘vulgata’.

Il biennio ’43/’45 non é, a parer mio – ripeto – privo di profonde analogie con quello che si sviluppò tra il ’92 e il ’94, periodo durante il quale fu completamente smantellato il sistema politico da cui erano stati concepiti Mattei (assassinato), Moro (assassinato) e lo stesso Craxi, che non si comportava bene, stando al galateo approvato dagli inflessibili censori di Washington, e che fu pertanto costretto ad andare in esilio dopo essere stato   travolto da una cascata di monetine.

Ma la metamorfosi del PCI, che si scoprì   irriducibilmente amerikano e liberal-liberista, senza più la copertura, anche finanziaria,  del KGB, fu accompagnata da una girandola di portenti che dovette essere stata alimentata da dei misteriosi incentivi  (chissà, poi, quali), come quello di un giovane  esponente della corrente lombardiana, la più vicina alle pertinenze del PCI, che aveva, prima della primavera del ’78, decantato sulle colonne della ‘Repubblica’ di Scalfari la necessità del ‘compromesso storico e che poi  fece una doppia  entrée, una in ‘Forza Italia’ e l’altra nella P2, di cui disse, interrogato dall’Anselmi, che aveva preso la tessera per difendersi, senza però mai specificare da che cosa e da chi.

Stranamente, di tutta questa oscura materia non si é mai parlato, se non nello stile più adatto ai rotocalchi che si occupano di gossip, e il motivo di tale lacuna è con ogni probabilità da ricercarsi nel fatto che i grossi calibri dell’editoria sono in possesso dei Dem e della Fininvest orfana di Berlusconi: che, cioè, c’é posto solo per un innocuo fuciletto ad aria compressa. Come il mio. 

 

 

Immagine: https://www.vhv.rs/

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