Chi ha paura della libertà?

 

Chi ha paura della libertà?

Vi era un grande bosco che accompagnava il limitare dei campi fino alla cima delle colline. Una bassa macchia con rovi che si intrecciavano in ogni direzione a mo’ di una verde e appuntita cintura, ne rendeva molto difficoltoso l’accesso, ma proseguendo al suo interno esso non risultava così fitto e oscuro. Alberi spessi e alti concedevano spazio alla luce che filtrava sino al tramonto e profumi di bacche e cortecce secolari davano sapore all’aria sempre fresca e gentile anche nel pieno delle estati. Proprio al cuore del bosco si trovava un avvallamento che si estendeva per diverse centinaia di metri, occupato al suo interno da una misteriosa costruzione dalle pareti grigie e irregolari. L’unica porta di accesso, sporca e arrugginita, restava sempre sbarrata, mentre le poche finestre erano piccole e opache, così che era impossibile vedere le sue stanze che sembravano però sempre illuminate. Il tetto non era rivestito di tegole ed era nascosto da strati di foglie secche e terriccio. Tutto il suo aspetto esprimeva incuria e squallore. I pochi che si erano avventurati sin lassù raccontavano di aver sentito voci e musiche ad ogni ora del giorno e della notte, ma per uno strano timore, mai nessuno aveva tentato di entrarvi. Nulla perciò si sapeva di quello che avveniva al suo interno: veniva chiamata semplicemente “la prigione”.

Un ragazzotto di sì e no quindici anni, esile, coi capelli biondi e ruvidi, ma occhi vispi, sempre sporco e mal vestito – un tipetto da nulla, insomma –  vagava spesso attorno alla cintura del bosco. Più volte si era spunto sino alla grande costruzione, con la speranza di vedere qualcuno uscire, o perlomeno affacciarsi sull’uscio, ma invano. Un pomeriggio di tarda estate, fresco e ventoso, stava correndo in direzione dell’avvallamento, così forte che, ormai quasi arrivato, inciampò malamente e cadde accanto ad una roccia. Aveva rischiato di rompersi una gamba se non fosse finito in un piccolo fosso nascosto da rami secchi e foglie. Tiratosi su, vide sotto i piedi un piccolo oggetto di metallo: era una vecchia chiave di ottone. La afferrò e immediatamente una speranza lo conquistò.

Si diresse zoppicante verso la prigione. Suoni e urla ovattate filtravano dalle pareti spesse. Da una delle finestre poste sul lato dell’ingresso, per la precisione da un angolo del vetro rimasto pulito e brillante, riuscì a intravedere lo strano spettacolo che andava in scena nell’enorme salone. L’interno era luminoso e ricco di colori; l’arredamento estremamente curato e moderno. Qua e là, però, si notavano crepe o muffe sulle pareti, e questo disfacimento mal si combinava con il lusso che esplodeva in ogni angolo. Una grande tavolata imbandita girava su due lati della sala. Le persone sedute in abiti eleganti mangiavano però con modi alquanto volgari e con estrema voracità come se fossero digiune da giorni. Di tanto in tanto scaraventavano resti delle pietanze ad una folla accalcata ai piedi del tavolo. Anch’essi indossavano abiti di un certo valore, ma tutti uguali; differivano solo per le tonalità di colore. Una piccola orchestrina suonava con brio ostentando sorrisi di maniera. Le occhiaie e i movimenti incerti tradivano invece una grande stanchezza. “Chissà da quanto tempo stanno suonando”, si domandò il ragazzo. Al centro, davanti al tavolo, si trovava un gruppo di persone di varie età, alcune sedute a terra, altre in piedi; ognuna di loro, intenta in non si capiva bene cosa, ignorava completamente le altre.

Sul lato opposto della sala, una scena ancora più sconvolgente apparve agli occhi del giovane. Su di un podio che prendeva per lunghezza tutta la parete, stavano alcuni uomini con i volti coperti da maschere, talune bianche, altre nere. Dal loro abbigliamento e dalla loro posa capì che fossero persone molto importanti, forse dei capi o qualcosa di simile. Davanti a loro alcuni uomini e donne inginocchiati a terra e seminudi venivano frustati da altri uomini che parevano ridere e scherzare con le loro vittime. Queste a loro volta, senza accennare il minimo segno di resistenza, si leccavano a vicenda il sangue delle ferite e guardavano con strani sorrisi gli uomini con le maschere, immobili davanti a loro. Vicino alla porta, poi, stavano delle persone che incitavano e applaudivano i carnefici con particolare veemenza; infine, di fronte a questi ultimi, un altro gruppo dall’abbigliamento piuttosto anonimo, pareva in atteggiamento di preghiera. Alcuni erano ritti in piedi con lo sguardo fisso agli uomini con le maschere, altri in ginocchio, gli occhi puntati verso l’alto. Nessuno di loro però muoveva un passo per fermare quell’assurda flagellazione che appariva sempre più al ragazzo come uno spettacolo grottesco.

Questo, riavutosi da quella visione sconcertante, guardò ancora la chiave che stringeva in mano e si decise ad andare verso la porta, con passi guardinghi. Prima di giungere all’ingresso si fermò a raccogliere una pietra appuntita vicino al bordo del muro: “meglio essere pronti ad ogni evenienza in certe situazioni!”, pensò. Infilò la chiave nella serratura cercando di fare meno rumore possibile e la porta si aprì dopo un solo giro. La luce del bosco filtrò soffice nel salone mentre lui restava in piedi sulla soglia. L’aria era irrespirabile e densa, di un odore acre, che toglieva il respiro, tanto che il ragazzo per poco non perse i sensi. Nessuno tuttavia fece caso a lui. Allora, riprese le forze, si mise ad urlare, ma anche questo non servì a distogliere quella gente dalle loro assurde azioni. Urlò ancora più forte, quasi fino a sfibrare la voce, poi balzato all’interno, minacciò con la pietra gli aguzzini che frustavano senza pietà quei poveracci, ma anche così essi continuarono a impartire le loro gioiose punizioni. Si avventò su uno di loro, ma, alle sue spalle, con un gesto tempestivo, un uomo che incitava al truce spettacolo, gli fermò il braccio, facendo cadere la pietra sul pavimento. La porta si richiuse da sola, forse per un colpo di vento, ma senza alcun rumore. La musica proseguì, i cori e le grida anche, e del ragazzo nessuno seppe più nulla.

Chi ha paura della libertà? Forse lo schiavo che disprezza la sua condizione e si aggrappa alla speranza di vedersi un giorno libero? Forse colui che finalmente riconosce la propria infermità e agogna a riconquistare la salute, anche se questo dovesse costargli fatiche e rinunzie? Forse colui che non vuole costringere il cielo nella sua stanza, ma allargare i muri e farsi lui stesso cielo? Forse colui che sente una nostalgia farsi strada sottopelle, una nostalgia a cui non sa dare ancora un nome ma che lo chiama ad una vita più piena? Forse colui che non prova più imbarazzo davanti ai suoi errori e al suo passato di ingannevoli certezze? No di certo!

Solo chi disprezza la vera bellezza, maestosa e terribile, chi fugge l’ignoto per accontentarsi di una mezza verità più accomodante; solo chi odia colui che è migliore e innalza la mediocrità a misura di tutto; solo chi vuole scorgere un po’ di bene anche là dove è ormai solo desolazione e morte, per non ammettere di essere lui stesso già morto; solo chi si aggrappa ad una felicità annacquata perché non ha la tempra di accettare la purificazione attraverso il fuoco e il sangue; solo chi si è costruito la sua gabbia dorata di consuetudini e perbenismo. Solo chi rifiuta di riconquistare la Vita che ha perduto scodinzolando dietro ai “buoni costumi”, ha paura della Libertà e così incatena anche gli altri alla peggiore delle schiavitù. Ignoranti con la presunzione del sapere, miserabili con l’aggravante del potere, sia esso del vile soldo, o del “luccicante” intelletto. La casa sta crollando ed essi ancora vi banchettano allegramente. Restare significa morte, cambiare significa vita, ma questa è un’umanità che vive nella monotonia della paura, e nella paura soffocherà il suo grido, prima di spirare.

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