Come si dice “pfffui” in inglese?
Il 7 maggio del 1915 un siluro, sganciato da un sommergibile tedesco, colpì e affondò, al largo delle coste irlandesi, il transatlantico britannico ‘Lusitania’ partito dal porto di New York e pieno di cittadini americani, centocinquantanove su di un migliaio, ma gli USA non entrarono subito in guerra a fianco dell’Intesa perché la nave era imbottita di materiale bellico destinato all’esercito di Sua Maestà Giorgio V e scarseggiavano, perciò, le condizioni per fornire un alibi morale al loro intervento nella Grande Guerra. La catena di Sant’Antonio, di navi che andavano su e giù in soccorso dell’Intesa nelle acque dell’Atlantico infestate dagli U- Boot, continuò fin quando il forfait della Russia non insinuò nel Governo americano il timore che tale evento potesse volgere le sorti del conflitto a favore degli Imperi Centrali, e i loro avversari, che erano stati abbondantemente foraggiati dalle banche d’oltreoceano, non fossero più in grado di sdebitarsi.
Ciò che indusse gli States a buttarsi, riposati e freschi, nella fornace del primo conflitto mondiale, non fu un rigurgito di idealismo ma un calcolo di bottega, l’occhialino in precario equilibrio sulla punta del naso adunco, le dita lunghe e affusolate come artigli d’arpia. Gli Americani fanno sempre così. Arrivano ultimi, escogitando un pretesto che emani l’odore della carità cristiana e della forza maggiore: la letale leggiadria della vamp che scende dalla scalinata, avvolta nelle piume di struzzo, facendo ‘lento pede’ lo slalom tra una distesa di corpi che diresti di feriti e di morti, ma potrebbero essere di persone che si sono gettate umilmente ai suoi piedi.
Il medesimo copione per la seconda guerra mondiale, che, in realtà, a detta di molti studiosi coscienziosi, è solo il secondo atto della stessa tragedia, messo in scena ad appena venti anni dal primo. I ‘nostri’ arrivarono dopo la catastrofe di Pearl Harbour – uno strano show room con tutti quei ferri vecchi messi in bella mostra perché qualcuno li bombardasse – con la precisa intenzione di fargliela vedere ai ‘musi gialli’, ai quali peraltro avevano già mosso guerra senza mai dichiararla, con le sanzioni economiche che li avevano tagliati fuori dal commercio del caucciù e del petrolio. ‘More solito’, approfittarono della spossatezza dei contendenti per partecipare alla mischia, e per completare l’opera d’arte che avevano già iniziato nel ’17: quella di spingere l’Europa a bordo campo, di farle fare tappezzeria, e di occupare al posto suo il centro della scena.
Il sospetto che essa – devastata (da Dresda a Cassino) da dei cowboys, completamente a digiuno di cosa significasse, nella sua più vaga accezione, il termine ‘cultura’, e costretta a condividere coi propri dominatori il progetto di un antemurale rivolto verso l’Unione Sovietica – non sarebbe stata capace di concepire la propria unità se non come una servile filiazione degli interessi di Washington, é del tutto assente nel manifesto di Ventotene, redatto da chi aborriva il concetto stesso di nazione facendolo risalire al DNA del fascismo, mentre non sembra estraneo all’invocazione dell’Europa fatta, nell’aprile del ’44, da uno dei quattro giovani soldati della RSI nell’atto di essere fucilato dagli anglosassoni: non la prefigurazione, nello stucchevole tran tran del confino, di un orizzonte improbabile, ma la firma sotto il proprio testamento scritto col sangue , di un eroe della Resistenza, quella autentica, condotta dagli infiltrati repubblicani nel Regno del Sud.
L’acqua e l’esca, quasi un tic nello schema comportamentale dell’imperialismo americano. Nel 1964, inventarono l’incidente del golfo del Tonchino per giustificare l’aggressione al Vietnam del Nord, ma seppero aggiungere al copione, che altrimenti sarebbe parso troppo stantio, la variabile del tradimento perpetrato nel novembre del ’93 ai danni della famiglia Diem, che venne fatta sterminare da un cartello di generali infedeli, con la scusa che era inguaribilmente corrotta e che non riusciva ad arginare l’opposizione interna: in realtà, perché contraria all’idea che gli Americani s’insediassero in pianta stabile nel Vietnam del Sud e lo utilizzassero come base per gli attacchi contro Hanoi.
Il vizio di prepararsi il terreno confezionando ‘in vitro’ le prove dell’indegnità morale degli avversari e degli ‘amici’ da colpire, é rispuntato fuori, con una puntualità cronometrica, in occasione della seconda guerra del Golfo, intrapresa nella primavera del 2003, con l’intento di rimuovere Saddam, dichiarato colpevole di avere approntato e di avere imboscato delle armi di distruzione di massa (delle quali non si é mai trovata, trascorsi quasi vent’anni, la benché minima traccia), e più tardi, nel 2011, con l’eliminazione di Gheddafi, accusato di violenze ai danni del proprio popolo. Il loro unico obiettivo, al di là delle solite menate propagandistiche, era quello di sbarazzarsi di un personaggio estremamente pericoloso, il beduino insolente che aveva annunciato l’avvento di una divisa tutta africana in contrapposizione al CFA francese e al dollaro americano, e che poteva certificare in qualsiasi momento quanto il petrolio e il gas estratti dal sottosuolo libico avessero inquinato le istituzioni di diversi Paesi dell’Occidente. A cominciare dai finanziamenti a fondo perduto erogati per l’elezione di Sarkozy, per finire col contrabbando di oro nero in direzione dell’Italia (lo scandalo Mi.Fo. Biali ripetutamente accennato da Pecorelli) che avrebbe dovuto supportare la creazione di un altro partito di centro, qualora la DC fosse finita nella rete del compromesso storico escogitato da Moro.
Neppure gli istanti che precedettero l’uragano di proiettili sparati sulla FIAT 130 in via Fani, sfuggì alla regola secondo cui gli Americani, prima di sopprimere le loro vittime, usano diffamarle, giacché è lecito supporre che Moro tenesse aperto sulle ginocchia il giornale ‘La Repubblica’ (il mistero di tante combinazioni, apparentemente inspiegabili) che era uscito proprio in quel giorno con la sua foto in prima pagina e con il titolo ‘Antelope Cobbler? Semplicissimo. È…. il presidente della DC’. Il dettaglio è scivolato lungo il piano fortemente inclinato della smemoratezza collettiva, non perché non fosse suscettibile di rilievo, ma perché, nel correre dietro al pifferaio magico della disinformazione che agitava il drappo delle BR, si è imboccata la strada sbagliata che sta da tutt’altra parte.
Il caso ha tuttavia voluto che, ricorrendo ai soliti trucchi, gli Americani abbiano sparso il seme della zizzania due volte in Europa nell’arco di meno di vent’anni, prima scatenando l’inferno lungo i Balcani, poi più vicino al cuore del continente, provocando l’attuale conflitto tra Ucraina e Russia: e la ragione di tanta perseveranza sta nel fatto che l’Europa – quale ipotetico concorrente, sul campo accidentato delle relazioni internazionali – è bene che replichi, nella sostanza e nei modi, le caratteristiche della loro ‘democrazia’, ma è ancor meglio se paga il prezzo (anche in termini economici) di una rischiosa precarietà, e se è indotta a stringere ancora di più, attraverso la NATO, i propri legami con Washington, mentre l’orso russo che si strofina la schiena sullo stipite della porta.
L’immutabile libretto della guerra fredda, rimesso in circolazione anche senza il coinvolgimento dell’altro protagonista, che non ha più la falce e il martello, e che continua a riproporre, ‘mutatis mutandis’, il cast in cui spiccano le figure del burattino scemo (ruolo assolto dall’uomo che fino a qualche anno fa percuoteva col pisellino molle la tastiera di un pianoforte) e del burattinaio (che parrebbe Biden, ma é qualcun altro che gli fa da badante), potrebbe riservare la sorpresa di una replica riveduta e corretta dell’effetto-Diem, nel senso che Zelenskyj viene messo a nanna, e si trova una soluzione meno dispendiosa dei quaranta miliardi di dollari recentemente stanziati per sostenerlo nei confronti di Putin: cosa che si evince, ad esempio, dall’aver fatto ricadere la colpa dell’assassinio della Dugina sui ‘servizi ‘ ucraini o dall’aver tolto la paternità russa ai due missili caduti in territorio polacco un paio di mesi fa.
Se così non fosse, sarebbe un pessimo 2023. Teniamoci l’anno vecchio.
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