Dall’utopia alla distopia: l’ultimo furto della globalizzazione
Per distopia si intendono la previsione, la descrizione o, più in generale, la rappresentazione di uno stato di cose futuro, con il quale, contrariamente all’utopia e in aperta polemica con le tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi. Non sorprende, dunque, che il Dizionario Treccani riassuma il concetto di distopia come «un’utopia negativa».
Ciò risulta interessante poiché, il tutto, risulta la cartina di tornasole di un mutamento sociale che la realtà fattuale eterodiretta dalle élite neoliberiste ha costruito ad hoc nel trentennio della globalizzazione.
In altre parole, la ‘dorata menzogna’ sulla quale il villaggio globale è stato edificato è stata la progressiva sostituzione delle ideologie del ‘Secolo breve’ per imporre «uno sviluppo economico diventato una finalità a sé, sconnessa da ogni fine sociale» (B. Perret, G. Roustang, L’Économie contre la société. Affronter la crise de l’integration sociale et culturelle, Parigi, Editions du Seuil, 1993).
Il che ha tradotto il combinato disposto dalla globalizzazione e dal neoliberismo, in un’imposta mutazione antropologica dell’economia in ideologia. Fattasi tale, essa ha riempito il vuoto lasciato dalle ideologie politiche: negli ultimi trent’anni, non a caso, la moda è stata quella del ‘post’. Vocabolo non inteso come «articolo di blog» o «testo condiviso sui social», bensì, nella sua accezione latina: tutti sono divenuti post-qualcosa. Se pensiamo all’Italia, dal 1992 ad oggi, si contano post democristiani, post comunisti, post socialisti, post-fascisti, etc.
Oltre gli italici confini, non è andata meglio e sulle macerie del muro di Berlino è nata «una società politica fatta di ex qualcosa, accomunati più che altro dall’obiettivo di ritrovare se stessi. Operazione tutt’altro che semplice, dato che l’identità politica dei grandi partiti […] era legata alla storia dei Paesi, ma tenuta insieme dalla vicenda molto più ampia delle ideologie politiche del Novecento» (N. Augias, A. Covotta, I cattolici e l’Ulivo, Roma, Donzelli, 2005, p. IX).
Il risultato è stato sorprendente. In pochi anni, l’economia ha fagocitato tutto: la politica, l’identità, i meriti, i bisogni. Essa si è fatta ideologia intollerante colpendo un elemento fondamentale su cui l’ideologia politica, per sua stessa natura, si poggia: l’utopia.
Ogni ideologia, infatti, fondandosi su una determinata interpretazione della realtà, contiene un progetto di riforma della stessa proiettato nel futuro. Un ‘progetto’ che rappresenta, appunto, lo scopo utopico dell’ideologia. Per questo l’utopia fu definita «la coscienza mistificata della tendenza storica effettuale» (J. Barion, Ideologie, Wissenschaft, Philosofie, Bonn, Bouvier, 1966, p. 9) e «un piano umano per interrompere la storia, per uscire fuori dalla storia e pervenire ad una perfezione stabile» (R. Ruyer, L’utopie et les utopies, Parigi, Presses Universitaires de France, 1950, p. 70).
In altre parole, è riduttivo considerare l’utopia come «tableaux représentant sous la forme d’une description concrète et détaillée l’organisation idéale d’une société humaine» (A. Lalande, Vocabulaire, technique et critique de la philosophie, Parigi, Alcan, 1926, voce «Utopie»). Infatti, all’uomo l’utopia serve, se non foss’altro per sentirsi proiettato verso un futuro soddisfando un’esigenza innata: il desiderio perenne di perfezionamento che spinge l’uomo a trovare l’immagine utopica della propria realtà cercando di realizzare la propria utopia.
Ecco: questo afflato, questo sentimento nobile spingente l’uomo ad essere migliore, a lottare, a mettersi in gioco, è stato annientato dall’unica ideologia che dell’utopia non ha bisogno: l’economia.
Essa esclude il futuro, ne priva lo stesso uomo, lo relega al presente. Un eterno presente poiché è in esso che l’uomo serve all’economia come consumatore: si acquista adesso perché chi vende deve guadagnare ora.
Il che porta nega l’utopia e impone la distopia: la rappresentazione di uno stato di cose futuro immodificabile, imposto dall’alto, nel quale non vi è spazio per i desideri, le aspirazioni, le volizioni e i fini politici. E regala una realtà fattuale nella quale la concezione del mondo diventa univoca escludendo la partecipazione evolvendo in una tecnica economica di controllo e di dominio.
Un mondo distopico, dunque, nel quale l’economia passa dalla sfera privata a quella pubblica assumendosi il compito di segnare la strada per dare risposta alle attese del mondo forzatamente globalizzato dall’élite mondialista.
Risposte che passano per un radicale cambiamento della natura dei rapporti sociali, per quell’oggettivazione dello scambio che elimina con un colpo di forbice ogni componente emozionale o istintuale da questi rapporti prescrivendo che essi debbano essere organizzati per dare alla realtà un assetto stabile e al mutamento un indirizzo prevedibile: quello che sta accadendo nella nostra società “grazie” al Covid-19 è la cartina di tornasole di questa mutazione genetica dell’economia in ideologia e che all’utopia sostituisce la distopia.
No, grazie. Noi rifiutiamo cortesemente questa visione. E continuiamo a lottare per un futuro che sia antitetico al presente che stanno imponendoci. Nel quale il pensiero forte osteggi, circoscriva e prevalga su quello unico.