Di Franco Scalzo
Non lo sapevo. I liberatori sono dei marcantoni neri dotati di un’imponente dentatura ed hanno la lodevole abitudine di distribuire ai liberati delle stecche di cioccolato. Peccato che a quelli che non volevano essere liberati e che attraversarono le linee per impedirgli di portare a temine la loro missione, riservassero confetti di piombo.
Non sapevo neppure che gli uomini degli anni ’40 e ’50 fossero così prodighi di schiaffi nei confronti delle loro mogli, benché abbia vissuto di quel tempo il cerchio più esterno, come di una superficie d’acqua che consumi stancamente la residua forza di un sasso.
Un vago ricordo di canottiere sudate. Di cespugli di pelo sotto le ascelle. Di un fiasco che troneggiava, pieno di pessimo vino, al centro della tavola, nei giorni di festa. Di un cocchio nero, condotto da cavalli neri impennacchiati e da un uomo con la feluca, anch’egli nero, che compariva, improvviso, ai lati della strada, nei funerali.
Ma parlerei piuttosto di una vaghezza, quasi di un sogno nell’ultimo stadio del REM, a ridosso del risveglio, e di dettagli che, per contrasto, sono vividi e categorici come insegne al neon.
Non mi sovviene – confesso – di avere mai avuto sentore – sia pure attraverso la sensibilità embrionale e ottusa dell’infante – dell’esistenza dell’orco descritto nell’ultimo film della Cortellesi, e non ho alcuna remora nell’ammettere che, non diversamente da lui, stando al suo posto, mi sarei adontato del quadrato di cioccolato che la donna aveva portato a casa, avendola ricevuta in dono da un nemico, dall’occupante, dallo straniero.
Il film riepiloga tutto il ciarpame ideologico lasciato dietro di sé dalla nuova Sinistra in fuga dalle proprie menzogne e dai propri travisamenti. Non vi si fa professione di femminismo (in tempi insozzati da brutte storie di cronaca nera, quasi tutte a carico di donne assassinate da uomini) ma vi si celebra il maschicidio: uno dei tanti processi sommari da cui escono condannati alla radiazione gli ultimi maschi superstiti, assieme ai loro avatar, moralmente disossati, usciti dalla stampante in 3D di questa civiltà al tramonto, quella del tutto e subito; del tutto o niente; della fretta disumana che oltraggia l’andatura naturale delle ore e dei giorni; del verbo Essere, pressato dai corifei del consumismo, che soccombe alle infinite declinazioni del verbo Avere.
La propaganda dilaga a spese della verità, che non può mai darsi al cento per cento: perché dipende dall’unicità dei punti di vista (il panorama che vedo dalla finestra della mia camera da letto non é quello che vedrei dalla porta-finestra della cucina, ma non sarebbe lo stesso neppure se mi limitassi a spostarmi di mezzo millimetro da dove compio ogni singola osservazione). Perché la verità é meglio centellinarla. Tutta insieme farebbe anche male. Perché é meglio di no.
Riflettevo su come l’impossibilità di concepire una verità, che abbia, al pari dell’oro trasformato in lingotti, valore universale, potrebbe trovare un parziale riscatto nel passare dal mondo della conoscenza, che ne accoglie anche troppe – ciascuna delle quali totalmente diversa da tutte le altre – a quello dei giudizi, che dovrebbe ratificarne una sola, sulla scorta delle evidenze.
Prendo per esempio la foto, riprodotta su quasi tutte le testate, del soldato israeliano che esibisce uno striscione “arcobaleno” su cui ha scritto con un pennarello “In the name of love”: sullo sfondo, il cielo, satinato, che si sdraia sulle rovine di Gaza.
Nessuno sa quale fosse il destinatario di tale “amore”, ammesso che ne avesse uno (un amichetto – chissà – del suo stesso sesso rimasto, comodo, a casa), oppure che si trattasse di un generico tributo al più dolce dei sentimenti violentato dal sibilo delle bombe.
Mi sarei aspettato non che si scatenasse un dibattito su quali misteriosi significati si nascondessero nel gesto compiuto dal fante israeliano, ma che qualcuno, che avesse studicchiato la Storia , o che fosse libero di pensare al di fuori dei condizionamenti operati su di lui dai tamburi battenti della propaganda pro-Israele, vi scoprisse delle inquietanti analogie col frontespizio in ferro del campo di concentramento di Auschwitz: in quell’epigrafe “Arbeit macht frei” che, non diversamente dall’altra, “In the name of love” , si configura come il più atroce degli sberleffi. Lì contro gli ebrei in procinto di essere ospitati nelle camere a gas. E qui, nell’anno domini 2023, contro i civili palestinesi trattati con la medesima ferocia che i genitori e i nonni dei loro persecutori subirono dai nazisti quasi ottant’anni fa: una replica perfetta, se non fosse per un certo numero di accessori che nell’originale non c’erano.
Quella che chiamiamo “propaganda” – ossia l’arte di nascondere all’opinione pubblica anche una parte della realtà e di imporne una narrazione scorretta – è, in buona sostanza, una fabbrica a ciclo continuo di abbagli collettivi, di truffe., di luoghi comuni.
Mi viene in mente il candidato del PD che, a forza di raccontare stronzate, vota in un seggio ai Parioli per essere eletto a Torpignattara, ma, nel recuperare lo scarto che divide la cronaca dalla Storia, non posso esimermi dal rilevare come il risultato di tutti quei corpi senza testa che si squagliavano sotto il pavimento del “Pere Lachaise”, in ottemperanza al precetto latino che, nel dubbio, é sempre meglio “abundare quam deficere”, sia stato solo ed esclusivamente quello di favorire la transizione dal dispotismo babbeo di Luigi XVI a quello grifagno di Napoleone Bonaparte, e che la gradevole risonanza di certi termini, come “egalité”, “liberté” e “fraternité”, abbia distolto la stragrande maggioranza delle persone, prese dalla strada e dalle accademie, da un apprezzamento realistico dei pro e dei contro della Rivoluzione Francese.
Per quanta poca simpatia avverta per le autocitazioni, in particolar modo per le mie, approfitto di questa pagina, dopo diverse pubblicazioni, col dire che, accanto a quella studiata per agire nel breve termine e per centrare il bersaglio nell’immediato, c’é anche la propaganda balistica che attraversa i decenni e i secoli, come nel caso dell’affare Matteotti, deformato in modo che tutti si convincano della responsabilità del “Duce” e aderiscano oziosamente allo schema in cui, per liberarsi di un oppositore intransigente e per accelerare il passo verso la dittatura, egli ne avrebbe ordinato la soppressione. Tutto ciò a dispetto di un documento, artatamente ignorato (il carteggio tra Suckert e De Ambris), dal quale si evince che era in atto il tentativo sotterraneo da parte di Mussolini di associare i socialisti al Governo e di realizzare un portento politico il cui effetto sarebbe stato, da un lato, quello di isolare i comunisti e, dall’altro, quello di mettere fuori gioco i “poteri forti” di allora, federati con la Corona, che lui aveva blandito dichiarando, con l’enfasi delle false promesse, che, una volta andato al Governo, avrebbe incoraggiato l’iniziativa privata facendola finita (cosa che non si sarebbe mai sognato di fare) con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato – borotalco che si diffonde dappertutto.
E’ d’altronde peculiare delle plutocrazie (come un giorno venivano etichettati i regimi creati dai demiurghi della Finanza da parte di coloro che razzolavano al di fuori del “politicamente corretto”) la disponibilità di grandi ricchezze e, quindi, anche la capacità di conferire alla disinformazione una curvatura scientifica, attraverso l’uso mirato dei “media”, specie adesso che la manipolazione della realtà può avvenire mediante le immagini collegate alle parole e al suono, che hanno sulle persone un impatto enormemente superiore a quello delle parole e del suono, presi da soli: un vasto assortimento di contraffazioni, di distorsioni e di inganni che passa per Saddam e per il suo arsenale pieno zeppo di armi di distruzione di massa, e arriva, tra una serpentina e l’altra, senza aver perso neppure un Joule della sua potenza cinetica, direttamente qui da noi, materializzandosi in un film che sembra innocente ma che ripropone con la suggestione del bianco e nero tutti i colori dell l’establishment.
Sarebbe perciò cosa buona che oggi -con lo Stato che si disgrega per l’azione corrosiva di quelle stesse forze che nel secolo scorso esso aveva cercato inutilmente di dominare e che oggi sponsorizzano l’atomismo sociale – si formasse da qualche parte un movimento a sostegno dell’interpretazione autentica non solo dei fatti lontani, ma anche di quelli a noi più vicini, il cui intreccio, per la velocità con la quale si connettono le persone e i luoghi, sembra rendere assai problematica l’impresa di sceverare il vero dal falso, il ragionevole dall’insano, e di dare, quanto meno, una risposta univoca ad una serie di perché.
Ne butto tre lì, alla rinfusa.
Perché i giovani assassini vengono evocati, nei media, col loro nome di battesimo, Filippo o Benno, come se si trattasse di soggetti con cui abbiamo fatto l’altroieri colazione al bar, e perché non prendere in considerazione l’ipotesi che in realtà si tratta di una tecnica volta a sminuire la portata del reato e a comprimere deliberatamente verso il basso le attese dell’uomo medio verso una moralità condivisa?
Perché non dare seguito, nella revisione del codice penale, alla facile constatazione che già nella tarda adolescenza si é in grado di distinguere il bene dal male?
Perché, con la fredda disinvoltura con cui si compiono gli atti eversivi, si é finito per trasferire dall’alunno all’insegnante la responsabilità dell’insuccesso scolastico? E perché ancora si consente ai genitori di interferire nei processi educativi di competenza degli Istituti, se non perché – mi ripeto – si vuole distruggere la pubblica istruzione e scongiurare, così, il rischio che ci siano in giro troppe persone capaci, all’occorrenza, di contestare il Sistema?
Perché si debbono scaricare sull’erario i costi altissimi di un processo (una tempesta di scartoffie, una lunga sequela di interrogatori scemi su dettagli insignificanti) quando si sa già tutto delle modalità di un delitto e dell’identità di chi lo ha commesso?
Domande semplici, alle quali – mi dicono – hanno già dato implicitamente una risposta dopo l’ennesimo femminicidio avvenuto giorni fa nel Veneto. Il ministro Valditara, col disporre un minuto di silenzio in tutte le scuole. La Meloni, col ripromettersi di introdurre l’educazione sentimentale nei programmi delle medie superiori. La Cortellesi – preveggente – nel tirare in ballo la cattiveria innata del maschio.
Della serie che c’é un problema, ma non c’é Houston.
Anzi, ci sono molti problemi, e alcuni sono stati creati proprio da Houston.