Del suo esempio Sergio Marchionne non ha condiviso solo la fama

 

Del suo esempio Sergio Marchionne non ha condiviso solo la fama

Amante di Schopeauer e di Nietzsche, laureato in Filosofia ed esperto di economia e finanza, italiano emigrato in Canada all’età di 14 anni. Una vita di corsa adattandosi ai fusi orari e ai cambi di governo, ma soprattutto alla volontà del mercato. Sergio Marchionne è morto da poco più di una settimana e la Fiat non si trova proprio nella serena condizione di poter proseguire senza traumi il cammino che l’amministratore delegato del gruppo FCA aveva deciso per l’azienda. I titoli in borsa sono crollati e la ricerca di un valido alleato per mantenere gli standard produttivi e di vendita è appena iniziata.

Un manager di successo, che passerà alla storia per aver evitato il fallimento Fiat, ridando orgoglio ai dipendenti e lustro al marchio, poi cercando nuovi spazi geografici trans europei. Entrato nelle grazie di Umberto Agnelli, nel 2004 è diventato amministratore delegato del gruppo Fiat e nel 2009 di Chrysler Group, quindi diventa Ad del gruppo FCA. Ha avuto la geniale idea di rispondere alla crisi del 2008 acquisendo un’azienda in fallimento e salvando con l’apertura al mercato statunitense la Fiat italiana. Apprezzato da Obama, che ne diventò finanziatore, non disdegnò di intrattenere cordiali accordi anche con capi di Stato europei e con Trump stesso, ossequiando la sua richiesta di evitare delocalizzazioni. In pochi anni la Fiat ha praticamente triplicato il fatturato.

Un decisionista, che sapeva apprezzare il rischio del giocatore di poker, vincente solo se gioca senza paura. Ai giovani che incontrava nei numerosi meeting ripeteva che bisognava vivere nella realtà e non dedicarsi all’utopia; ai manager neo assunti, inviava una lettera breve ma eloquente con la quale spiegava loro cosa l’azienda si sarebbe aspettata: qualità, merito, dedizione, coraggio. Il coraggio di muoversi e non di attendere di essere mossi, la dedizione di chi non risente necessariamente dell’obbligo degli orari di lavoro. In una intervista degli ultimi anni ribadì appunto il concetto che un manager deve dare al lavoro una assoluta priorità, se vuole riuscire. Non esitò a darla, non si è mai risparmiato. Ha raccolto un’azienda dipendente dai calcoli politici e l’ha trasformata in interlocutore essenziale della politica. Amato dai dipendenti per le sue abitudini informali, per le visite ai reparti, per le soste in mensa e l’abbigliamento non proprio da etichetta, per aver abbattuto le gerarchie aziendali, ne è stato odiato per le promesse mancate, i tagli al contratto Nazionale, le garanzie dei lavoratori non tenute nel debito conto. Inviso soprattutto per aver parlato di nuove tecnologie e di modelli ibridi e aver disatteso le aspettative.

A Pomigliano rimangono dipendenti che attendono di essere reintegrati e sotto i capannoni Fiat gli impiegati d’estate lavorano a circa 40°, affollando per malore le infermerie. In catena di Montaggio ha ridimensionato i tempi di pausa a 10 minuti e inserito nel regolamento multe per torti o ritardi. Maggiorare la produzione per Marchionne ha sempre contato più dei diritti dei lavoratori, perché viviamo in un contesto globale e si deve essere al passo con gli altri standard. Questo significava per lui vivere nella realtà.

La Fiat è stata salvata, è propagandisticamente orgoglio Nazionale, eppure di Nazionale le è rimasto ben poco. Le sue sedi sono all’estero, in Olanda, in Inghilterra e in America, il suo mercato è all’estero, il suo futuro è nell’accordo con l’estero. Non era un patriota Marchionne, forse un apolide che considerava la radice un dettaglio irrilevante, un ostacolo probabilmente all’apertura globale. Globalizzazione e competitività, il titolo di uno dei suoi ultimi interventi pubblici, nel quale si possono tirare le somme della sua vita e della sua storia manageriale; un titolo che chiarisce la sua devozione assoluta ai diktat del liberismo. Di questa cultura economica   Marchionne in vita ci ha mostrato il volto disumano e spietato, ed ora  in morte ci ha svelato la instabilità e precarietà di questo stesso sistema, che, lo si voglia o no, per ora, indirizza la nostra economia.

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