La linea è non destinare legittimità e dignità a chi non è allineato.
Ci provo, ma non ci riesco. Provo a costruire un sistema che produca l’idea contraria alla mia. È un po’ uno dei miei motivi frequenti al cospetto di ciò che è diverso o contrario al mio pensiero. Di solito ci riesco. Magari impiego un po’, ma poi arrivo a percorrere una linea che a mia volta mi permette di affermare quanto avevo sentito sostenere da altri.
Non è un appello ad essere empatici o di superficiale valore da sbandierare alla prima occasione, ma a riconoscere quanto siamo fautori proprio della storia che vorremmo migliorare. È un esercizio utile. Dare dignità al diverso, dare pari legittimità, riconoscere la reciprocità delle nostre biografie è un gioco sostanziale, relativo al tentativo di comprendere le scelte degli uomini, di qualunque specie esse siano. Adatto a comprendere la verità dell’eterno ritorno. Un circolo vizioso che fa perno su un punto di facile individuazione: la lettura del mondo secondo interessi personali.
Per dare pari dignità al diverso, è necessario astenersi dal farsi prevaricare dalla propria moralità. È necessario prendere le distanze dal proprio sentimento separatore. Emettere un giudizio, attribuire perciò delle proprietà a quanto crediamo di vedere fuori da noi, ritenere perciò ci sia una realtà oggettivabile e oggettivata è esattamente quanto impedisce la realizzazione del mio intento, la cui sintesi potrebbe essere che il problema non è se una posizione è giusta o sbagliata, se un fatto è vero o no, ma in che termini lo è vero e in quali non lo è.
Tutte le nostre posizioni sono arbitrarie e fanno capo alla nostra biografia. Questa è un deus ex machina che per sua natura sceglie dal volume infinito dell’ipotetica realtà, dell’iperuranio direbbe Platone, i dati necessari alla sua sopravvivenza. Li prende, li allinea e ne conclude una certa verità. E un procedimento del quale non si ha consapevolezza. Ne deriva un campo con le sue regole, i suoi limiti e la sua verità. Che guarda a caso ben si addice a sostenere noi stessi. È una modalità ineludibile, la cui consapevolezza o meno genera però mondi diversi.
Non si tratta però di ardire all’astensione del giudizio, quanto piuttosto di non identificarsi in esso. Tutte le posizioni ci sono già: come sarebbe possibile che la nostra abbia più ragione d’essere di quella affermata da altri? Evitare di identificarci con il nostro giudizio significa non concedere ad esso il diritto di sopraffazione.
Acquisire le consapevolezze necessarie a riconoscere la centralità egoistica del cosmo, la sua ermeneutica, la sua episteme, comporta un processo possibile a chiunque sia motivato a questa ricerca, nonostante il nostro humus culturale non la agevoli. In ogni caso, per certi aspetti, già lo pratichiamo. In esso risiede il motivo per cui non ci puniamo, per le nostre mancanze di un tempo. Ne comprendiamo invece le ragioni e semplicemente ne prendiamo – consciamente o inconsciamente – le distanze. Come se il nostro io di allora non fosse più quello di ora. Giustificare ciò che facevamo e credevamo ci è possibile in quanto ricostruiamo la struttura di circostanze che ci ha condotto a certe scelte. Nel medesimo modo tendiamo ad accettare i misfatti compiuti da altri. Con queste modalità possiamo perciò riconoscere come allora e come ora, giocando su campi differenti ai nostri differenti comportamenti, diamo, nel loro presente, tutta la dignità e legittimità possibile. E quanto, al momento delle affermazioni, sempre siamo in grado di difenderle, se necessario fino alla sopraffazione di chi non la pensa come noi.
Dunque, è sufficiente cercare nella nostra biografia, e nella relativa autoindulgenza, per fare esperienza di cosa significhi riconoscere che l’autoreferenziale campo in cui ci muoviamo non può avere maggior diritto su quelli dei movimenti altrui; come sia possibile realizzare la pari dignità tra noi e il prossimo. Se poi si ha l’interesse a coltivare il tema, si arriva anche a vedere che l’altro da noi non è che un noi in altro tempo, spazio e forma. Esattamente come eravamo noi quando facevamo cose che ora aborriamo.
Il processo di presa di coscienza in questione è di tipo evolutivo. In esso è implicato un gradiente di benessere – tanto individuale, quanto sociale – altrimenti precluso. Gradiente che viene meno quando ci sentiamo obbligatoriamente impegnati a difendere le nostre verità, e, se necessario, anche ad attaccare. La difesa di un’idea, di una scelta, di una posizione impedisce il riconoscimento delle ragioni altrui, è il contrario dell’ascolto, e mantiene il conflitto come standard di vita. E, con il conflitto, la sofferenza che questo implica. Attivare il processo della reciprocità, smorza o annulla le difese a priori che applichiamo alle nostre scelte, tendendo così a ridurre le ragioni dei conflitti. Alza quindi lo standard del benessere, della serenità, della forza.
Nonostante la mia propensione a riconoscere in che termini è vera un’affermazione contraria alla mia, questa volta mi trovo in difficoltà. La sola struttura che riesca a ricreare, che comporti quanto mi sono sentito recentemente dire, è ancora un giudizio: miseria. Mia e sua.
Ho chiesto a un amico – corpo d’élite italiano, e forse più – che so pensarla diversamente da me in merito a tutto, un commento su alcuni articoli che ben rappresentavano la mia posizione su alcuni aspetti dell’attuale situazione socio-politico-pandemico-sanitaria. Mi ha risposto che erano un elenco di luoghi comuni, ha stigmatizzato il blog che li aveva pubblicati, ha fatto del sarcasmo su una delle affermazioni presenti in uno degli articoli. Anch’essa idonea a rappresentare la mia preoccupazione.
Quando gli ho sottoposto gli articoli, pensavo avrebbe preso qualche affermazione in essi contenuta per argomentare perché non la condividesse, perché fosse errata. Speravo mi dicesse come in effetti stessero realmente le cose. Non l’ha fatto. Non era la prima volta che risolveva in quel modo fuggitivo le mie richieste di sue critiche. Dopo la sua risposta – chiamiamola così – vuota di argomenti, si può concludere che quegli articoli, che per me erano tutto, per lui erano niente. Non meritavano attenzione. Non contenevano una posizione da considerare se non liquidandoli come va di moda ora, senza una ragione.
Erano tutto perché esprimevano una posizione lontana ed estranea alla narrazione governativa. Esprimevano un pensiero che, invece di essere negato, quando non deriso o totalmente travisato (1), avrebbe dovuto essere preso in considerazione in quella narrazione, da quell’élite. Che se i narratori non si erano mai occupati di quelle critiche, avrebbero dovuto esserne invece interessati.
Era una considerazione che poggiava le sue basi sulla democrazia, sull’imparzialità delle istituzioni, sul serio tentativo di ogni governo di tener contro di tutto il popolo che comanda, sul semplice fatto che riferiva argomenti. Ma, a ben guardare, era una base evanescente, quantomeno anacronistica e – ammesso sia mai esistita – ormai antistorica.
Gli articoli sottoposti al mio amico (3, 4, 5, 6) mi parevano idonei per rappresentare dove eravamo arrivati con le politiche da lui condivise, dal governo da lui sostenuto. A mezzo di quei pezzi avrei – credevo – avuto modo di sentire come la Costituzione non sia stata scavalcata, perché non era stato utile e necessario dire e sostenere menzogne sul vaccino e sulla tessera verde, sulla loro efficacia, sulla loro durata, perché era stato giusto ridurre e privatizzare il sistema sanitario, perché era stato giusto mentire sulla mascherina all’aperto, sostenere la segregazione anche entro la propria città, perché dopo le contraddizioni tra scienziati ed esperti non è stato considerato necessario attuare ripensamenti sulle scelte compiute e sulla squadra del Comitato Tecnico Scientifico, in che termini la stampa aveva fatto bene a divenire passacarte, quanto era stato giusto e doveroso colpevolizzare chi voleva legittimamente rinunciare ai rischi vaccinali, perché avevano fatto bene a tacere su questi, perché era stata scelta oculata non ascoltare chi aveva trovato cure efficaci, come mai, viste le esperienze delle guarigioni domestiche, non hanno voluto agevolarle. Allungare questo elenco è tediare e chiunque può considerevolmente implementarlo.
Per comprendere il disinteresse del mio amico ad un dialogo sui punti critici presenti negli articoli o ad esso riconducibili, era sufficiente cancellare la legittimità della base su cui poggiavo la mia idea. Democrazia, Repubblica parlamentare, Sovranità nazionale, Diritti inalienabili, Costituzione, sono concetti obsoleti anche se si guardano bene dal sopprimerne i nomi. A queste condizioni potevo comprendere la posizione del mio amico. Per poter realmente liquidare un confronto, doveva affermare il campo in cui Democrazia, Repubblica parlamentare, Sovranità nazionale, Diritti inalienabili, Costituzione non hanno valore.
La politica sta navigando in una direzione contraria alla rotta che ci avrebbe condotti verso lidi più umanistici che questo malcontento profondo induce a sperare. Ha scelto di solcare linee in mano ai potentati economico-finaziari. Stiamo perciò andando dove l’individuo e la sua dignità non saranno che un dato utile o inutile al sistema economico. Gli scartati saranno elemosinati con un sussidio ricattatorio. Gli abili – a scadenza temporale – saranno spremuti, e sostituiti a piacere. Alcuni saranno nobilitati con premi, destinati soprattutto ad alimentare la loro superbia e il loro buonismo. Superbia nei confronti del fu sottoproletariato, un tempo fascia minore, ora fascia sociale maggioritaria. Buonismo, nei confronti della medesima fascia. La contraddizione tra il loro sentimento e la loro facciata non li scompone: siamo sempre noi stessi e il filo rosso della nostra biografia ce lo conferma.
Tanto è vero che il processo evolutivo è affare individuale, così, per l’aspetto politico, si può concludere che andremo a finire dove il potere della politica vorrà. E non vuole intendere altro che non sia superbia e buonismo. La prima, perché sapranno dare dei disadattati a chi non sta alle regole del loro campo, la seconda, si riterranno i fautori di pensieri globalisti, i soli, a loro dire, necessari al bene comune.
Vorrei chiedere al mio amico ancora una cosa. Cosa pensa dell’editore, quello che ha ritenuto opportuno pubblicare gli articoli che ha liquidato senza alcuna dialettica e in poche parole: “Ho letto ma non vedo novità e non mi affaticherò a fare l’esegesi di questi testi, prodotti da quel faro delle libertà che è Arianna editore; insieme a truismi e a qualche fatto ci sono risciacqui di luoghi comuni fra gli apoti”, se nel novero della sua rassegna stampa è inclusa La Repubblica (1), il suo giornale.
Dopo aver consultato il mio amico per un parere su quanto letto negli articoli che gli segnalavo, ho visto Come un gatto in tangenziale. Se quanto scritto qui non è chiaro, buona visione.
– Ma è populismo. Leggi non conta nulla.
– Eh, sì. Temo risponda il mio amico.
Note:
- https://www.repubblica.it/cronaca/2022/01/08/news/l_identikit_del_no_vax_basso_livello_socio_economico_e_di_istruzione-333086915/?ref=RHTP-BH-I322793271-P2-S1-T1.
- https://www.ariannaeditrice.it/articoli/covid-sorpresa-in-africa-la-strage-non-e-mai-avvenuta
- https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-boom-economico-italiano-e-l-inflazione
- https://www.ariannaeditrice.it/articoli/per-sessant-anni-non-mi-sono-mai-interrogato-sulla-mia-identita-sessuale
- https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-situazione-e-la-seguente
- https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-governo-alza-il-livello-dello-scontro