Edificare nella comunione

 

Edificare nella comunione

Fra tutte le arti quella che per prima ha iniziato ad appassire, è senza dubbio l’architettura. Le linee dei grandi edifici moderni violentano le pupille, confondono i pensieri. La disarmonia è stata eretta a ordine formale, il freddo acciaio e il cemento hanno scalzato la pietra. Il gusto di un popolo e lo spirito di un tempo, superati dai vezzi delle “archistar”. L’ego definitivamente si materializza, ingigantito nelle forme che devastano i paesaggi delle nostre città: un’abnorme creatura affrancata da tutto quello che la attornia, orfana di un passato, gonfia dell’illusione di un futuro. Non viene risparmiata da tale abbruttimento nemmeno l’architettura sacra, la quale anzi, forse per rivendicare di essere al passo coi tempi, riesce perfino a primeggiare in bruttezza, in molti casi. E così, i nostri occhi si sono ormai assuefatti alla mediocrità, e spesso all’orrido. E la deturpata visione si è fatta pensiero, così che pensiamo ciò che vediamo. Le forze per ritrovare la giusta direzione del Bello sembrano ormai spente, ceneri ormai fredde. Questo per noi è segno di un male più grande che supera di molto i confini dell’arte, perché è un male che si è insediato nell’anima dell’uomo.

Edificare, letteralmente significa costruire un’abitazione, ma origina dalla radice sanscrita IDH, INDH, ovvero infiammato, infuocato. Nel suo cuore di senso, perciò, si trova l’elemento del fuoco; del resto ancora oggi adoperiamo la parola focolare per indicare l’abitazione domestica, il luogo dove la famiglia convive nell’intimità. Il fuoco infatti simboleggia lo spirito e quindi ha una virtù generativa e insieme di comunione.

Durante il Medioevo, la costruzione delle cattedrali era affidata ad un architetto, o capomastro, che progettava l’edificio e dirigeva i lavori. Sotto di lui, un gran numero di operai specializzati suddivisi in confraternite (muratori, carpentieri, vetrai e altri ancora) secondo un ordine e una gerarchia ben delineati. Ma vi era un aspetto “unico” che manifestava il segno di quell’epoca, di quel mondo: tutta la comunità si univa alla realizzazione di questi maestosi edifici sacri.  Così scrive Daniel Rops nella sua Storia della Chiesa del Cristo a proposito della costruzione della cattedrale della Madonna di Chartes: «Si vedevano uomini vigorosi, orgogliosi della loro nobile nascita e delle loro ricchezze, e abituati ad una vita di ozio, attaccarsi con corde a un grosso carro e trascinare pietre, calce, legno e tutti i materiali necessari». E chi non poteva partecipare ai lavori, donava offerte o preghiere. Mercanti, cavalieri, ma anche prostitute, o uomini di malaffare lasciavano parte dei loro guadagni. E il prodigarsi dell’intera città era reso ancora più straordinario dal fatto che questi lavori duravano alle volte più generazioni così che molti non potevano ammirare il compimento dei loro sacrifici. Era l’ideale di un popolo che sopravanzava quello del singolo e la sua vanità, a guidare quelle anime: l’infinito che vinceva il finito. Un universo mitico – e quindi simbolico – legava la comunità, un universo che mostrava scolpiti nella pietra anche mostri e demoni, perché in esso convivevano le tenebre e la luce più sfolgorante. Si sperimentava concretamente l’abbraccio con l’anima, luogo “femminile” dell’ombra: non è un caso che molte cattedrali in Francia fossero consacrate alla “Nostra Signora”, donna, ma «più che creatura», che dai cieli assiste e protegge l’umano gregge.

Guardiamo a questi “segni” che ci vengono dal passato e specchiamoci in essi. L’aridità della moderna architettura è sintomo di una più generale sterilità che previene qualsiasi azione creatrice. Contro la tirannide di questi tempi, sappiamo al massimo giocare in difesa. Balbettiamo lamenti e rivendicazioni, ma non siamo in grado di elevare la voce a Parola. Con smisurata inettitudine, ci opponiamo solo per tamponarne gli eccessi; null’altro. Ciechi che non vedono come tutto è “fuori norma” e perciò eccessivo!

Si può e si deve invece tornare a creare (edificare), in ogni territorio dell’umana società. Opera di pochi, senz’altro, ma non è il “numero” la misura del Bello e del Buono. È però necessaria, anche se dolorosa, una presa di coscienza: si deve ritrovare quell’universo mitico e simbolico che solo può ricostituire una comunità, legando fra loro le anime dei suoi membri e dispiegando ai loro sguardi, un “nuovo” immaginario. Solo chi vede, progetta e crea. La Visione è Vita. Vita che è reintegrare il maschile col femminile, la luce con l’ombra, a cominciare da dentro noi stessi per poi trasporlo fuori di noi; il microcosmo riflettendo il macrocosmo e viceversa, secondo le leggi della corrispondenza. È recupero necessario dell’interiorità che vivifica l’azione, è rinnovata sete di intimità fra le persone.

Nel precipitare dei secoli moderni, abbiamo “guadagnato” l’eguaglianza – per poi vederla oggi inevitabilmente stritolata dalla tirannia – ma così abbiamo perduto la comunione. Solo nel riconoscimento delle specifiche personalità e traiettorie evolutive, è possibile la comunione. Davanti alle fiamme si stringono le anime, e nascono visioni. Si erigono mura che compongono edifici non di sola pietra, ma spirituali. Nella veloce discesa che porterà sì alla catastrofe, breve parentesi prima della cosmica catarsi, noi dobbiamo tornare a creare, a impastare la terra a valle, con l’acqua pura delle vette. Questo, noi crediamo, è eminentemente un tempo di creazione, in vista della restaurazione, ma per esserne di nuovo capaci, dobbiamo prima riaccendere il Fuoco.

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