I have a dream – il sogno che sto sognando

 

I have a dream – il sogno che sto sognando

Se fossi in loro, in quelli che hanno fatto questo golpe al rallentatore, prendendosi, su istigazione del mandarinato dei Bruxelles e dell’Alta Banca, tutto il potere, senza mai essere stati scannerizzati dal voto popolare, consiglierei per un lasso di tempo strategicamente molto più esteso di quello connesso all’emergenza sanitaria, di insistere – facendone una dottrina, un credo, una costante matematica, come il pi greco – sul tasto delle divisioni che, per i Romani, condannati e abituati a vincere, si traduceva nella raggelante banalità di due semplici parole, collegate da una semplice congiunzione: divide et impera.

Già oggi, nel navigare sulle acque basse dei social, si capisce come l’introduzione del green pass abbia fornito alla pandemia, artatamente travisata quanto alle sue dimensioni e alla sua effettiva gravità, un ulteriore valore divisivo giacché, oltre che a separare l’opinione pubblica in due blocchi – uno dei quali inorridisce di fronte allo scempio della carta costituzionale, e l’altro, invece, ne approva la sospensione senza lasciarsi neppure sfiorare dal sospetto che il Covid 19 abbia imparato, sin dall’inizio, a fare politica sotto mentite spoglie – ha ulteriormente inasprito, per un inevitabile effetto di trascinamento, il confronto tra i VAX e i NO-VAX facendo assumere al campo di battaglia l’aspetto orripilante di una grande bolgia dantesca, dove tutti si battono ferocemente contro tutti, ognuno con un’arma diversa, chi col gladio, chi con la scimitarra, chi, facendo sfoggio di doti balistiche, con lo sputo.

Se si parte dal presupposto che il potere dispone tanto più facilmente della società che si propone di controllare quanto più questa è sfilacciata e incoesa, la soluzione, lapalissiana, risiede nella capacità, da parte di chi lo detiene, di alimentare all’infinito il gioco delle contrapposizioni frontali e in quella di generare dei lancinanti sensi di colpa, che finiscono invariabilmente per agire a carico dell’attore che per convenzione è il più forte, come nel caso del maschio che sottomette la femmina, o del bianco che ha fatto più storia del nero ed è ora indotto dal Pensiero Unico a vergognarsene.

Lo sminuzzamento è un’arte che si apprende e si perfeziona negli anni. Ce ne sono voluti una sessantina, almeno qui in Italia, per sotterrare la figura del “pater familias”, che era l’asse intorno al quale ruotava, in tutte le sue proiezioni ortogonali, la società civile: tanti quanti ne sono serviti, con una progressione in parallelo che mi appare oggi molto sospetta, per distruggere la Scuola, sottraendo al docente qualsiasi funzione pedagogica e lasciandolo, indifeso ed imbelle, alla mercé dell’alunno ignorante e dei genitori che, nel prenderne le difese, si dimostrano  ancora più ignoranti di lui.

 Contro il principio d’autorità, che ha sempre funzionato come antidoto del disordine e come torre di guardia delle comunità organizzate, si sono coalizzate forze apparentemente eterogenee proprio a far data dal ’68 e dintorni, ma le ragazze che nei cortei  univano le due mani a mo’ di farfalla per celebrare gli esordi del femminismo e  quelli che praticavano l’iconoclastia a gogò per far saltare le logiche dei padri relativamente alla fede, al lavoro, all’economia e all’amore, agivano senza saperlo e senza volerlo per conto terzi, le termiti nel termitaio, ciascuno con la sua modica quantità, un pezzetto microscopico di materia, un piccolo passo alla volta, era tutto ciò che occorreva ai progettisti pazienti del Grande Reset.

La decantazione verso questo obiettivo, che si scorge ormai ad occhio nudo, è stata talmente lenta che quasi nessuno, per via dell’assuefazione ai miasmi del politicamente corretto, ha osato rilevare che si è dato molto più spazio – qualche giorno fa – ad un episodio, ancorché deplorevole, di “mano morta” avvenuto fuori dello stadio di Firenze  che al Trattato del Presidente, dal quale ci si aspetta un’ulteriore sforbiciata alla sovranità nazionale: e questo, mentre si rimane fiduciosamente in attesa di qualcuno che ispezioni i bilanci dell’INPS per verificare quanti soldi, risparmiati sulla pelle degli anziani morti di malasanità all’avvento del Covid, e di quegli altri che frugano tra gli avanzi nei cassonetti, siano utilizzati per mantenere il popolo dei barconi – il fitto tramestio degli storni e delle locuste – che hanno eletto domicilio nel nostro Paese.

Non diversamente dai regimi totalitari del ‘900, anche quello attuale su base europea agisce sulla pedaliera alienazione/omologazione: un meccanicismo del quale – a titolo di esempio – sono testimoni l’ultimo veto di Sua Maestà, Ursula von der Leyen, all’uso del nome di Maria, che sarebbe poco congeniale alle abitudini degli islamici, e l’ukaz emanato nei confronti dei renitenti al green pass, le cui abitazioni, prive dell’indicazione vergata col sangue degli agnelli, verranno visitate e  messe a soqquadro dalla sbirraglia (nessun riferimento alle discriminazioni contro gli ebrei: sono un commentatore avveduto). C’è, tuttavia, un distinguo, neppure tanto piccolo, di cui tener conto. Il Nazismo e il Comunismo riuscirono a realizzare l’ossimoro del consenso forzato attraverso la somministrazione, a tambur battente e su larga scala, di fisime fatte passare per verità assolute (la quadratura del cerchio delle dinamiche culturali e sociali, appariva necessaria per dei sistemi che sintetizzavano nel proprio seno i poteri fondamentali, quello della politica e quello della Finanza), mentre è il disordine, incoraggiato dalla pratica delle contrapposizioni frontali (il nativo prevaricato dallo straniero, il bianco vs il nero, il maschio vs la femmina, i pensionati vs i disoccupati, l’assordante clangore del ferro e degli scudi che noi, italiani della vecchia guardia, sentivamo prorompere dalle pagine dell’Iliade) che conviene oggi ai detentori, solo nominali, del potere politico, perché in realtà essi decidono sulla scorta dei dettami  che ricevono dal potere economico sovrastante, il quale ha conseguentemente requisito anche quello politico, lasciando nelle mani dei partiti e delle istituzioni liberali la sola funzione esecutiva (di concetto, sarebbe già troppo), la stessa dei bidelli (detto con riguardosa simpatia), degli scritturali, degli impiegatucci di banca: il disordine che non è disordinato, il disordine funzionale, perché alle dittature del secolo scorso piaceva il giardino alla francese, neppure un filo d’erba al di fuori del seminato, ma i demiurghi della Finanza stravedono per la giungla, dove il più debole soccombe ineluttabilmente  al più forte, è il loro habitat, la loro terra promessa.

Attenzione, però: la rincorsa non è stata breve. Sono partiti quatti quatti dalla fine degli anni ’60 e hanno fatto strada inizialmente con la messa al bando del ‘”pater familias”, per consentire alle spore avvelenate dell’anarchia di cominciare a riprodursi  dal basso, e quindi hanno continuato col far cadere i docenti, rei di voler cristallizzare le graduatorie del merito (roba da “ancien regime”, tre, cinque, sette meno), giù dalla cattedra, ma il capolavoro che gli strateghi della divisione e della rissa hanno portato ormai a termine senza suscitare né un ooh! di ammirazione né un aah! di ripulsa  è quello di essere riusciti non solo a separare i padri dai figli, ma a collocarli su rotte diverse, il prodromo della collisione generazionale, che avverrà tra due o tre passaggi, col fatale corollario di una moltitudine di feriti e di morti.

A mangiarne un po’ di fisiognomica e a fare professione di pedestre empirismo, nel rivedere i frames delle ultime manifestazioni di protesta contro il green pass ci si accorge  del reduce del ’68 che si fa scudo col gomito dello scudo del celerino, ma dell’assenza, pressoché assoluta, dei reduci del grande assalto al supermercato della LIDL per accaparrarsi un paio di scarpe considerate “fighe”, o della fila chilometrica (notte/giorno) che si sono dovuti sobbarcare per comprare l’ultimo LP di un branco di fracassoni.

Anni fa un mio amico mi fece notare come tra noi, i nostri padri e i nostri nonni ci fosse un’essenziale continuità: ridevamo per le stesse barzellette, ed eravamo mossi a commozione dagli stessi racconti, fossero stati quelli del nonno che ricordava gli stenti sul Grappa o quelli del padre che parlava delle sue vicissitudini in Libia. Per scrivere, avevamo usato tutti lo stesso pennino e lo stesso calamaio pieno fino all’orlo d’inchiostro, ma i progressi della tecnologia c’entrano solo in minima parte. È l’alfabeto che è cambiato, l’alfabeto dell’esistenza: estroverso, fluido, aperto, quello dei padri.    Ermetico, denutrito e bolso, quello dei figli. La TV monnezza, importata da Berlusconi e successivamente trapiantata nei palinsesti di mamma RAI, e la scuola trasformata in una fabbrica di somari, hanno certamente contribuito, ma non si è trattato di tragedie casuali: c’era, e c’è, il disegno criminale delle élite che si sono attrezzate per avere tutto il potere per sé, in eterno, mummificando la Storia.

Ho un sogno (I have a dream, perdonatemi la licenza), che è addirittura molto più ardito di quello disvelato un giorno da Luther King alla platea dei seguaci, ed è quello in cui sulla scalinata di Valle Giulia, disseminata di sassi, le sagome che stanno lì, ritte in piedi, come statue e come obelischi, quasi a significare di essere stati reclutate dal destino per una sfida definitiva, tornano in vita e riprendono il film proprio dal punto in cui si era bloccato: molte barbe bianche, delle spalle un po’curve, il vuoto dove una volta c’era qualcuno che non c’è più.

È il sogno che sto sognando.

 

Immagine: https://pochestorie.corriere.it/

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