Contagiati, positivi, asintomatici. I contagi salgono, i contagi scendono. Si contano i morti: oggi un segno più, domani un segno meno. Negazionisti contro allarmisti. Un nuovo lockdown, crollo dei consumi, economia al collasso. Si fanno bilanci, si stimano cifre. Comitati tecnici, pareri degli esperti, mercati in allarme. Ormai da mesi sono queste le parole che scandiscono la nostra vita, una vita ridotta a bollettino sanitario. Mai l’esistenza umana si era ridotta a faccenda epidemiologica, a querelle tra virologi. Mai le norme igieniche erano divenute i princìpi ispiratori della società. Mai il destino dei popoli era stato messo nelle mani della scienza profana, in balia di ipotesi statistiche.
Viviamo in un presente raggelato, in un istante che si ripete identico: un tempo opaco, contratto, nel quale nulla veramente accade. Forse la catastrofe maggiore causata dalla pandemia è aver creato negli uomini l’illusione che tutto questo − queste cifre, questi dati, questi numeri − sia l’unica realtà. Non solo non si riesce a costruire un mondo diverso, ma addirittura non si riesce nemmeno a concepire che un tale mondo possa esistere: non si tratta solo di cecità, ma di una terrificante assenza di immaginazione. Al punto che abbiamo finito per considerare permanente il relativo, assoluto il transitorio. L’umanità odierna ha dimenticato una verità conosciuta da tutte le civiltà tradizionali: tutto ciò che è sotto il sole è cibo per la morte, ed è destinato a perire. “Ogni cosa perirà tranne il Suo Volto”, afferma il Corano: ebbene quanti sono − tra quelli che pure si definiscono credenti − coloro che sono in grado di comprendere questo insegnamento? Quanti sono in grado di sperimentarlo nel loro agire quotidiano, di farlo penetrare nella carne viva dei loro pensieri e dei loro sentimenti? Non solo non siamo più in grado di volgere il nostro sguardo al cielo, ma nemmeno all’orizzonte: ci limitiamo a guardare in basso, e chiamiamo questo libertà.
Naturalmente il potere agevola questa discesa, dispiegando ogni mezzo a sua disposizione affinché gli uomini si degradino sempre di più: cosa c’è di più facile che manipolare e dominare una massa amorfa, un gregge che bela all’unisono? E nella misura in cui porta avanti un’opera di costante divisione tra gli esseri umani – uomini contro donne, bianchi contro neri, gay contro etero, autoctoni contro stranieri – svela la sua natura satanica. Il diavolo è infatti il dualista per eccellenza, come ci rivela il significato etimologico della parola greca διαβάλλω: dividere, separare, è l’attività prediletta del principio della sovversione. Creare la dicotomia affinché l’Unità venga obliata, è questo il fine a cui tendono le forze del caos e i loro agenti. Per questo, oggi più che mai, quei pochi che sono ancora degni di chiamarsi umani non devono lasciarsi ingannare: tra i due schieramenti (almeno in apparenza) opposti – destra e sinistra, controrivoluzione e rivoluzione, tradizionalisti e progressisti − devono scegliere il Centro. Tra le cose che appartengono al tempo devono scegliere l’eterno, quell’eterno che nessun potere – per quanto pervasivo e spietato – ci può strappare. Poiché al di là dell’alternarsi delle albe e dei tramonti, al di sopra del frastuono delle cose terrene, del vanire delle epoche e delle ideologie, vi è qualcosa che – inalterabile, indistruttibile – continua a splendere nelle tenebre.
Smettiamola di guardare esclusivamente verso l’esterno, dimenticando che il divenire non è che l’epifania dell’essere, e volgiamo i nostri occhi verso l’interno: è con l’occhio dell’anima, come ci ricorda Platone, che si vede la realtà, quella realtà che permane immutabile, fuori della presa di ogni contingenza. Fino a che riusciremo ad identificarci con quello Spettatore beato che nulla sa dello spazio e del tempo, e non conosce né dolore né tedio, né inizio né fine. È verso l’Alto che dobbiamo tendere, verso la Fonte da cui promaniamo e alla quale un giorno faremo ritorno. Poiché non dobbiamo mai dimenticare che siamo pellegrini in viaggio, esuli che desiderano tornare a Casa. Ed è qui e ora che questa traversata, questo cammino a ritroso va compiuto. Tutto il resto, come recita la Īśā-Upaniṣad, “non è che una distesa di nodi”.