Del lungo viaggio in ‘600’ che la famiglia intraprendeva per arrivare a Catanzaro ricordo distintamente il momento finale: quello in cui mio padre, giungeva al cospetto della nonna, che lo aspettava, assisa sul trono nella sua immarcescibile tunica nera – la compostezza ieratica di una vecchia regina – e compiva come un inchino per baciarle la mano. Benché quasi un bambino, ma fresco delle suggestioni che mi avevano procurato la lettura dell’Iliade e la vista dei bassorilievi babilonesi, dove tutto, anche nei minimi gesti, appariva imposto e regolato da una regia iperuranica, non me ne stupivo: era la Storia, che riforniva, attraverso i capillari del tempo, di una piccola quantità di magia l’ordinarietà del presente e lo riscattava delle sue fruste consuetudini, lo annetteva a sé.
Un amico un giorno mi fece notare come tra i nonni, i padri e la nostra generazione ci fosse una sostanziale continuità. Da adolescente non andavi a letto e non andavi di sotto a giocare se non avevi fatto i compiti. Non osavi chiedere che cosa ci fosse da mangiare perché dovevi accontentarti di ciò che passava il convento: non esistevano alternative.
È stata, quella cosiddetta del ’68, l’ultima generazione ad aver conosciuto l’intraducibile libidine dei conflitti, nonostante, intorno ai primi anni ’60, fosse stata investita dall’onda d’urto del boom economico: il ‘frigidaire’, il ricambio delle scarpe, la sosta notturna negli autogrill dell’ENI, il riverbero azzurrino del neon che ti si stampava sul viso e sulla schiena mentre dormivi. O, forse, proprio per questo. La Befana portava ai maschietti delle pistole, e il solo fatto di abitare nelle palazzine del Comune ti faceva sentire come nemici da annientare i ragazzini che vivevano poco distante, in quelle dell’INA Casa. Sassaiole e mischie quasi ogni giorno. Eravamo stati strutturati dalle nostre stesse famiglie – dominate dalla figura del padre, e anche da una madre che dettava ordini dalle retrovie, senza darlo a sapere, delle regine che facevano tranquillamente a meno del trono – in modo da escludere dal nostro universo ogni menoma forma di mediazione, o di qua o di là. E la Scuola ci aveva messo sopra il carico da undici, proponendoci con l’insegnamento della Storia il menù fisso dei buoni che prevalevano sui cattivi, e nel darci lezioni di merito con la macellazione dei somari.
Non ho ancora ben chiaro il motivo per cui la mia generazione, e quella di molte persone che leggono queste righe, avesse acceso i fuochi del ’68 nonostante avesse beneficiato dei copiosi dividendi di una stagione importante sotto il profilo economico, quella che aveva lanciato il Paese nella hit parade delle potenze planetarie (volare, oh oh….), ma è plausibile che la voglia di partecipare, soffocata dalle dinamiche del nucleo famigliare, nel quale campeggiavano, incontrastabili ed incontrastati, i ruoli del padre e della madre, nel combinarsi con le maggiori opportunità che coesistevano col ‘miracolo’ economico, o con ciò che gli sopravviveva alle soglie degli anni ’70 – che poi sarebbero diventati di ‘piombo’- giustificasse il trasferimento della sassaiola dal chiuso dei cortili condominiali al campo aperto presidiato dalla ‘celere’ e dagli idranti.
Il Potere si vendicò dei giovani che lo contestavano – talora con delle licenze poetiche e con argomenti speciosi, come quello liofilizzato nello slogan ‘meno lavoro, più salario’ – utilizzando, come i praticanti di certe arti marziali, il loro stesso slancio e la loro stessa forza per liquidarli. Il ‘pater familias’, che era il fulcro e la quintessenza del frattale primario, per l’appunto, la famiglia, fu rovesciato a seguito di un colpo di Stato ordito dall’establishment, del quale facevano parte i ‘figli dei fiori’ e i primi cloni della Bonino. Un pediatra americano, tale Benjamin Spock, tuonò contro i genitori che osavano calmierare con uno schiaffo le intemperanze dei figli, salvo poi ritrattare quando ormai i suoi seguaci, disseminati in tutto il mondo, avevano fatto il danno. Gli studenti in rivolta volevano la scuola facile e furono subito accontentati con una raffica di riforme che trasformò la pubblica istruzione in un barattolo vuoto, al massimo – a voler essere pignoli – nel barattolo di Piero Manzoni, con dentro l’espressione dei suoi migliori talenti, un ricciolo di merda. Fu questo, con molta probabilità, insieme all’abolizione del servizio di leva, che sarebbe stata decretata qualche anno più avanti, una delle ragioni della lunga deriva che ha portato i giovani di oggi dove sono adesso: un’ansa laterale del fiume al di là delle canne, l’acqua bassa, il trionfo della putredine.
E’ facile che il fenomeno sia stato favorito dal ricorso del Potere ad una serie di dispositivi, come la Play Station o come la TV imperniata su paperissima e max factor, la fissità coniugata col disimpegno, ma è in ogni caso suscettibile di una dolorosa riflessione il fatto che proprio adesso, nel momento i cui i fuochisti del turbocapitalismo e i loro servi sciocchi reclutati nei luoghi della politica, intensificano la loro azione per espropriare del futuro il Paese, i giovani diano il meglio di sé partecipando ebbri di gioia alle esibizioni dei Maneskin, il fracasso, l’eccesso fine a se stesso, l’esplosione del ghiacciaio che precipita giù suscitando le paure per tutto ciò che si muove senza che ci sia una coscienza capace di indicarle la direzione, ma questa è una gioventù debole perché non sa piangere sul passerotto di Lesbia che procede zampettando verso le porte dell’Ade, ma anche perché, novantanove individui su cento, non sanno neppure – maledetta Scuola – chi sia Catullo.
Di generazione in generazione, partendo da quella sfornata dai ragazzi del ’68, il divario tra i padri e i figli è divenuto sempre più pronunciato. Si sarebbe dovuto sentire, come quando il terremoto apre delle fenditure nel centro delle città, una specie di crepitio. Ci sono delle responsabilità – a parte quelle dell’establishment che lo ha fatto apposta – negli insegnanti che non hanno insegnato e nei giornalisti che rinunciano a parlare della guerra in Ucraina per occuparsi del matrimonio andato a male di Totti, perché ciò che conta è il colore delle notizie e la ridondanza dei fatti finisce per cancellarlo: perciò spuma, schizzi e la Carmen di Bizet.
Molti miei amici, ormai in vista, come me, dello striscione d’arrivo, ma afflitti dalla tenace convinzione che bisogna fare qualcosa per rimediare alla catastrofe, non hanno ancora capito che se c’è una residua possibilità è quella che ritornino – vecchi sessantottini pieni di affanni e di acciacchi – nuovamente in servizio, non foss’altro che per dare l’esempio. Una grande sassaiola, come ai bei tempi, prima che cali il sipario: se ci fossero Ronconi e Strehler, prenderebbero nota.
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