Il mio idolo è malato

 

Il mio idolo è malato

È quel tipo di persona che sembra splendere da sola. È quel tipo di persona che sembra salvarsi da sola. Ma nessuno si salva da solo; nessuno vive sciolto da tutto. Nessuno muore completamente estraneo. Il mio idolo è malato, per questo sa curare: nel modo in cui muta un silente nemico in amico, si presta ad essere terapia, trasversalmente, della mia esistenza, dimostrami che essere se stessi non è un lusso. Per che cosa stai vivendo tu? Il gusto amaro che ho avvertito, mentre lei deglutiva la routine. Il suo era un sapore intenso, di una protagonista, e il mio?

Essere soltanto o essere semplicemente a volte non è sufficiente. Quel dover rendere a noi stessi ciò che minimamente siamo, per essere davvero -chi siamo- parzialmente. È composta da istanti, la restituzione della nostra storia alla vitalità. Scorre con o senza di noi. Magari c’è, nascosta all’angolo di una parentesi cupa, la pressione di una costrizione. Probabilmente una casa. Quando cala il buio, percuote ogni senso, per il timore di non distinguere, finché, all’esterno, appare smarrita la ciclicità. Per dire che tutto è uguale a tutto, dovrei vedere. Una certezza nasce -e nasce soltanto- da una sottile percezione. Deduciamo di poter vedere, una novità per chi è abituato alla cecità dove tutto è uguale a ogni cosa.

E cosa vedi realmente nell’altro? Sembianze, trasparenze, ipotesi, desideri o, radicalmente, solo lui? Il mio idolo è musica, genialità, linguaggio, parlava con la devozione e la devozione insegnava a noi la traiettoria verticale. Il mio idolo, come una scheggia impazzita, c’era. Il mio idolo c’era, per quel poco che ho raggiunto di lei, solo con le bollicine. Dà, e gli estranei ricevono. L’alterità deve compiacere per ciò che cerchiamo o perché, misteriosamente, è, del tutto, sostanza? Spasmi muscolari, continui, quel corpo che sfuggiva e la sua integrità nel domarlo. Non ho visto una donna grande perché capace, ma una donna eroica in quanto colpita, salda nelle sue lacerazioni. C’era tutta, in lei, la chiara scissione fra il corpo storico, livellato in una vita di esposizione, e il corpo beffeggiatore, nemico a se stesso: l’estraneità, come un fragile contenitore, era a tal punto estesa da inglobare l’ipotesi del reale. Sarei dovuta essere empatica con quel corpo dolente, invece fissavo un’ideale mentre sfilava dai miei occhi la benda per consentirmi di ricalcare la vera sagoma del mio idolo. C’ero io e c’era il mio idolo più grande di quanto la mia miseria fosse riuscita a vederlo, oltre l’isterica nevrosi di libertà autentica perché possibilista. Quale proporzioni indicibili possiede l’effetto collaterale di un contatto improvviso fra ciò che l’uomo ricorda di sé, ciò che sperimenta e la consapevolezza. L’ambivalente natura umana ridà il mistero che ciascuno incarna. Il corpo impersonale è l’oggetto della scienza: noi esprimiamo la corporeità innocente, per questo veniamo al mondo nudi da qualcuno; ecco l’ex-sistere da cui il dono.

 C’è un agire in grado di smuovere la parte più silente del nostro cuore, messa a tacere da un calcolo probabilistico; quel movente che, divenuto azione, si chiama umanità, il cui principio è l’attenzione:  come potrebbe raggiungerci, altrimenti, questo amore che ci salva

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