E’ ricorrente, come l’eterna giostra delle guardie e dei ladri nei film di Charlot, la richiesta di sanzioni penali a carico di chi osa insinuare che, senza Auschwitz (l’incidente per il quale le é stato conferito il laticlavio a vita), la Segre se ne starebbe tranquilla a casa a fare la mamma e la nonna, come la stragrande maggioranza delle donne italiane.
Voglio mettere subito in chiaro che mi sento in colpa, come appartenente al genere umano, nei confronti di tutti coloro che vengono perseguitati ingiustamente dai propri simili: ed é ciò che provo verso le vittime di una religione per psicopatici, come fu il nazismo. Ma, al di là della fantasia che suggerisce ai bucanieri del ‘social’ l’immagine, sicuramente inelegante, della Segre nell’atto di ‘detergere i piatti’ – per lei inconcepibile se non fosse scampata alla shoah (é, purtroppo, la condanna che tocca a quanti hanno una cucina troppo piccola per piazzarvi una lavastoviglie) – io non vedo cosa ci sia di tanto scandaloso, da riferire alla magistratura e da additare al pubblico ludibrio, nella semplice enunciazione di un dato di fatto. Perché – diciamolo apertis verbis – la Segre é senatrice a vita perché tanti anni fa, é tornata da un campo di sterminio, fortunatamente incolume nel fisico ma con l’anima piena di cicatrici, quelle che non vanno mai via, che sono sempre più grandi di qualunque indennizzo.
Il manto della nostra pigra normalità nasconde regolarmente delle disgrazie che non sono molto dissimili da quella capitata alla Segre nel ritrovarsi, insieme a diverse migliaia di correligionari, nella filiale dell’Inferno aperta dai nazisti ad Auschwitz, ma la fattispecie della disgrazia é lontana anni luce da quella del merito perché nel primo caso si tratta di un evento, o di una concatenazione di eventi, che dipende da fattori esterni alla volontà del soggetto che lo subisce, mentre nel secondo é il soggetto che crea l’evento rendendosi responsabile di tutte le conseguenze, materiali e morali, che ne derivano E’ chiaro, pertanto, che se si volesse riconoscere, anche oggi, a tutti gli oppressi, dalla vedova dell’operaio – dei tanti – che é volato giù dal quinto piano a causa di un’impalcatura difettosa, ai superstiti delle stragi di mafia, la stessa riparazione accordata alla signora Segre, neppure uno stadio basterebbe per contenerli.
Da qui, allora, la classica domanda, che l’uomo comune, preso dalla strada, si pone solo tra sé e sé per non essere classificato come ‘fascista’: se questa suscettibilità, non solo alle osservazioni che la riguardano, ancorché siano caratterizzate da uno stile un pò greve, ma all’essere semplicemente citata facendo il nome di ‘ebreo’ e di ‘shoah’ , non costituisca, nel caso della comunità ebraica, il riflesso sghembo di una patologia culturale che si é ormai incancrenita.
Anni or sono, Marco Taradash, il deputato radicale che fungeva da segretario, non ricordo se nella prima o nella milionesima commissione incaricata di risolvere i ‘misteri’ dell’affare Moro, a forza di sentir parlare del ghetto ebraico di Roma come possibile luogo di detenzione dello statista democristiano, sbottò dicendo che “il ghetto ebraico di Roma non esiste, o meglio, esiste dal punto di vista architettonico….e che anche le Brigate Rosse potevano abitarci o prendervi in affitto un locale senza per questo essere sospettate di avere avuto rapporti di alcun genere con gli ebrei’.
La potenza misteriosa dei nomi. Qui é bastato aver sfiorato un tasto sulla macchina da scrivere del cervello per scatenare un romanzo e per dare la stura, mescolando in modo quasi automatico i termini del problema, una ciclopica confusione. C’é tuttavia da far presente, a scanso di equivoci, che l’episodio introduce, sotto una forma semplificata e abbreviata, la questione se, nel caricare a molla una qualsiasi parola di significati che non le appartengono, non si finisca per alterare surrettiziamente, in misura massiva, i contenuti della comunicazione: così che, per l’appunto’ la parola ‘ebreo’ diviene fonte di sospetto e di diffidenza a carico di chi la usa, mentre genera una sorta di barriera invisibile intorno al soggetto al quale essa si associa, una specie di cerchio magico al cui interno questi si chiude in ‘clinch’ senza che si capisca esattamente se lo faccia solo per difendersi – non si sa da che cosa – o magari solo per attaccare.
L’impossibilità di venire a capo di tale rebus mi ha puntualmente trattenuto, come studioso di Storia e appassionato di sociologia, dall’affrontare una questione apparentemente di poco conto: quella, cioé, se nello scoprire che le cariche più importanti dell’ordinamento giudiziario provengono da Roccacannuccia si rimarrebbe indifferenti come quando si rileva che l’attico e il superattico del giornalismo italiano sono abitati da persone, come Mieli, Lerner, Augias, Mentana e Ferrara, il cui denominatore comune é la kippah, una percentuale irrisoria rispetto a quanti sono, come afferma Parenzo, di un’altra sponda.
Non saprei dire – dato che il problema riguarda me e impone un apprezzamento neutrale – se la rinuncia sia tributaria della preoccupazione di suscitare delle reazioni pavloviane financo in quelli che abitano nei piani di sotto: i quali, per converso, si sentirebbero declassati a povere schiappe.
Insomma, il Pensiero Unico – che dovrebbe, in teoria, smussare gli angoli delle opinioni divergenti, per incanalarle, in fila per due col resto di uno, nella direzione di un
immenso supermercato, alla mercé dei più vili affaristi – mette a disposizione degli uomini liberi, solo a loro (é un privilegio del quale farebbero volentieri a meno) delle corsie preferenziali piene di tornanti e costellate di trabocchetti.
Metti, il termine ‘fascista’. Diresti che non c’é nulla di strano nell’impiegarlo come segnaposto di un’esperienza politica che si é chiusa definitivamente ormai da ottant’anni, e neppure che lo si usi per evidenziare delle improbabili analogie con dei sistemi, ad essa posteriori, che le assomigliano (forse Peron, alla lontana, un no secco per la proliferazione delle dittature militari che sorsero come funghi all’ombra della Guerra Fredda).
L’anomalia – mimetizzata dalle brutte abitudini e concepita da menti raffinate – sta nel fatto che il termine ‘fascista’, che é stato preferito a ‘comunista’ e a ‘nazista’ per indicare tutto ciò che urta coi dettami del Pensiero Unico e con l’isteria liberista (dal padre che rifila uno schiaffo al figlio disobbediente a quegli che continua ad essere maldisposto verso gli equivoci sessuali), fa riferimento, per facilitare l’esorcismo , all’unico tentativo, compiuto nella storia recente, di coniugare la difesa dello Stato-Nazione con l’intangibilità dello Stato sociale: un modello – che si vuole resettare con la ‘cancel culture’ e con la messa al bando della Storia dai programmi scolastici – che appare molto più pericoloso per la memoria collettiva e, quindi, per l’establishment, del confronto con le varie declinazioni del Verbo comunista, che hanno tutte fallito, e col nazismo, che é stato, a ben guardare, un’atroce caricatura del fascismo, la perentorietà del quadrato e del cerchio (un vizio antico dei crucchi) che traligna nell’abominio.
La prova di come dalla competizione col nemico (eh, sì, col nemico) si esca con diverse incollature di vantaggio, battendolo sul terreno della semantica é, tra le tante, il fatto che si sia dato disinvoltamente del ‘fascista’, senza produrre repliche, all’individuo che ha esultato sul ‘social’ alla notizia della morte di Sassoli: laddove sarebbe bastato definirlo ‘italiano’ per avergli contestato la solidarietà– da presidente del parlamento europeo – espressa a Carola Rackete nella nota vicenda di Lampedusa, e ‘italiano maleducato’ per averlo fatto senza ritegno, fregandosene alla grande del galateo.
Anche la dimensione ‘privata’ mi procura, al riguardo, delle conferme. Giorni or sono, un conoscente, che mi risulta essere un sobrio studioso del Ventennio e un irriducibile oppositore di questo regime, pieno zeppo di gente come Speranza e Draghi, nel commentare l’imposizione del ‘green pass’, insisteva col dire che si tratta di una misura di pretto stampo fascista: come il sintomo di una malattia autoimmune, o come la prima schiera di un esercito, al tempo dei Romani, che, nel rinculare, rovini contro la propria retroguardia e la schiaccia. O come un testa-coda sull’autostrada. O come un corto circuito. Mettetela come vi pare. A me pare evidente, senza essere né Sun Tzu né Carl Von Clausewitz, che chi ha il monopolio della parola e, quindi, anche del silenzio, vince, e che agli altri, a tutti gli altri, rimane solo (ma é facoltativo) da meditare sulla sconfitta.