Il Racconto dei Racconti: il fantasy nostrano

 

Il Racconto dei Racconti: il fantasy nostrano

Di recente mi è capitato di rivedere il film Il Racconto dei Racconti di Matteo Garrone basato sulla raccolta di racconti in lingua napoletana Lo cunto de li cunti edita per la prima volta nel 1634, risultando quindi la più antica raccolta di fiabe europea, contenente le prime versioni di favole come Cenerentola bene prima dell’arrivo dei Fratelli Grimm.

Oltre che dalla bravura indiscussa del maestro Garrone (che, a differenza di un qualunque Michael Bay moderno, non sbaglia un campo e controcampo o nel costruire una inquadratura nemmeno sotto tortura) nel portare in sala un genere ormai così tipicamente anglo-hollywoodiano rivisitandolo per sfruttare il retroterra culturale italiano, sono rimasto impressionato per i toni morbosi, quasi horror in alcune scene, con cui è riuscito a portarlo sullo schermo. Il regista romano prendendosi i suoi tempi lascia spazio ai personaggi (riuscire ad inserire personaggi come il re erotomane interpretato da Vincent Cassel in quella che doveva essere una favola non è proprio da tutti) e mettendo da parte l’azione sfrenata di moda adesso tenendo incollati gli spettatori sfruttando solo l’intreccio della trama componendo inquadrature che assomigliano a quadri.

I meravigliosi scorci dei paesaggi e dei castelli medievali nostrani (Castel del Monte, Castello di Donnafugata e Castello di Roccascalegna solo per dirne alcuni), che appaiono in alcune scene de Il Racconto dei Racconti, con le loro bellissime scenografie naturali suppliscono più che egregiamente a filtri digitali e computer grafica, tanto che lo sguardo dello spettatore abituato ai blockbuster moderni potrebbe rimanere smarrito per la mancanza di edulcorazione nelle immagini che gli scorrono davanti.

Nonostante il cast composto anche da diversi volti stranieri (scelta produttiva giustificabile dal bisogno di poter realizzare un prodotto in grado di essere venduto non tanto alla televisione italiana ma fuori dai confini nazionali), la maestria di Garrone è riuscita a farmi respirare un aria fantasy quasi nazionalpopolare che mi sono accorto di non aver più provato da quando leggevo le fiabe di Italo Calvino o i racconti di Dino Buzzati oppure quando guardavo in TV Fantaghirò da bambino.

I giovani fruitori di fantasy di oggi non sembrano in grado di apprezzare la rustica e folkloristica semplice bellezza di ciò che una volta era fantastico tanto sono storditi dall’artificiosa frenesia dei chiassosi moderni franchise fantasy che al confronto sembrano imbottiti di steroidi ed anabolizzanti.

Passando ad altre polemiche la pellicola di Garrone ha rafforzato nella mia testa l’idea di ciò che si potrebbe fare con poco, sfruttando con sapienza le nostre bellezze, nel comparto cinematografico italiano se solamente avessimo una classe di produttori non più attaccata alla logica stantia del cinepanettone. Una convinzione confermata anche da altre opere come Lo chiamavano Jeeg Robot, un film di uno spaccato sociale quasi disarmante per come descrive lo stato di periferie come Tor Bella Monaca, ed il cui indiscusso successo di critica e commerciale è stato possibile grazie ad un regista indipendente di talento e ad un finanziamento di meno di 2 milioni da parte di Rai Cinema.

Ma siamo ancora il paese di Cinecittà, ribattezzata nel mondo la “Hollywood sul Tevere”, oppure no?

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