Il tempo del capitalismo moralista

 

 

Il tempo del capitalismo moralista

Ogni sistema ideologico, ogni visione del mondo esprime una sua moralità. Non importa quali siano i presupposti e le idee di cui si sostenta: conta la sussistenza e la pervasività di un orizzonte morale. Poco interessa che la morale sia opposta a quella a cui eravamo abituati da secoli e sia, nei fatti, un’ipocrisia: è il destino di tutti i sistemi etici privi di uno sfondo spirituale. Forte di questa convinzione, il filosofo spagnolo Miguel Angel Quintana Paz, docente dell’università di Salamanca, ha elaborato un’interessante teoria. Il presente è per Quintana l’epoca del “capitalismo moralista”.

Un merito di Quintana è di ribaltare un concetto che da oltre due secoli egemonizza il pensiero occidentale, ovvero che il movente universale dell’azione umana sia il denaro, la ricchezza. Un principio condiviso dal marxismo e dal liberalismo, la giustificazione del pensiero strumentale che restringe la complessità dell’agire umano. C’è qualcosa che attrae con una forza assai maggiore: il potere, il dominio. Spesso la ricchezza è solo il mezzo per ottenere ciò che davvero eccita, il potere, il controllo e il dominio su altri esseri umani, oltreché sulle cose e la natura. Chi possiede tutti i mezzi- economici, finanziari, tecnologici, culturali- non ha bisogno di più denaro. Ce l’ha già: la cupola finanziaria crea dal nulla il denaro e finge di prestarlo agli Stati e ai popoli. L’inganno usuraio universale del debito, la cornucopia che soffoca le masse.  Le oligarchie hanno superato da tempo la fase dell’arricchimento e mettono in pratica un’intuizione di Friedrich Von Hajek: chi possiede tutti i mezzi determina tutti i fini. Indica qual è il bene e il male, il giusto e lo sbagliato.

Regolati i conti con la ricchezza- fintanto che i popoli non scopriranno l’inganno e grideranno che il re di denari è nudo- la cupola ha deciso di inseguire qualcos’altro: il potere. Sulle nostre menti, sui nostri costumi, sulla nostra morale. Era l’ultima frontiera che restava da superare a un capitalismo che non smette di penetrare in tutti gli ambiti della vita.  Implicitamente, Quintana esorta a riprendere una lezione marxiana, l’esistenza e la forza della “struttura”. Ogni grande mutamento di costume e di opinione egemone ha sempre la radice primaria nella “struttura”, ossia nella sfera dominante e nella gestione del potere. “Se manca la consapevolezza di questa radice strutturale, se manca la comprensione di come vada collocato il problema che si sta trattando rispetto ai meccanismi di distribuzione dell’economia e del potere (spesso coincidenti), si finisce per perdere di vista l’unica sfera dove si possono muovere le leve causalmente decisive”, scrive il filosofo Andrea Zhok.  Non vi è dubbio che la struttura, oggi più che mai, è l’alleanza sistemica tra finanza, multinazionali e tecnologia, all’ombra dei poteri riservati radicati nel centro dell’Occidente. In termini marxiani, la nuova moralità- ossia il senso comune dell’epoca- è un elemento centrale della sovrastruttura. Posta la questione in questi termini, il pensiero di Quintana si dipana attraverso una serie di osservazioni che spiegano la nuova categoria di “capitalismo moralista”.

Siamo in una fase del capitalismo in cui è difficile rintracciare categorie economiche e politiche del secolo scorso per il solido connubio tra burocrazie statali e transnazionali e grandi corporazioni, che oltrepassano concetti come la concorrenza e il profitto a breve termine. In questa fase dominata dal “capitalismo clientelare” (crony capitalism) , le aziende promuovono un’agenda ideologica con la quale decostruiscono e reinventano il consumatore/cittadino, utilizzando una serie infinita di regolamenti e coercizioni imposte dai governi, guardiani della loro ingegneria sociale e giuridica. Un capitalismo che utilizza slogan moralizzanti, sostenuti, pubblicizzati dalla categoria delle “vittime” senza alcuna attinenza con i prodotti, poiché ciò che offre il capitalismo moralistico non è l’esperienza del prodotto ma l’esperienza della virtù e la guarigione dalla colpa.  La forza del capitalismo, compresa da Marx e da Schumpeter (“la distruzione creatrice” ) è di essere uno straordinario Zelig che si trasforma continuamente, cooptando e modificando nel profondo idee e principi opposti.

Quintana muove da una serie di esempi concreti di moralismo (e ipocrisia) neo capitalista; tempo fa è stata diffusa una pubblicità in cui l’azienda di rasoi Gillette accusava il suo pubblico di riferimento di avere una “mascolinità tossica”. Il filosofo si chiede quale fosse il senso di un’attitudine offensiva nei confronti dei clienti, tanto più per il calo di profitti subito dopo la campagna pubblicitaria. A queste perdite, il manager Gary Coombe rispose che non gli dispiaceva perdere soldi perché l’azione moralizzatrice aveva prevalso; il calo dei profitti era un prezzo che valeva la pena pagare.  Strana giustificazione, da parte di chi lavora(va) esclusivamente per il profitto. Di recente, una campagna pubblicitaria della birra Budweiser è stata affidata a un bizzarro testimonial, Dylan Mulvaney, un influencer in transizione di genere che celebra online i “progressi” della sua nuova condizione.  Contemporaneamente, Mulvaney è stato ingaggiato per una campagna della Nike relativa a una linea di reggiseni. Altre polemiche e nuovo fallimento commerciale. In America si è diffusa l’espressione “get woke, go broke”, sostieni la cultura della cancellazione e fallirai. 

Eppure la dirigenza di Budweiser non torna indietro: vuole cambiare l’immagine “obsoleta” del marchio per diventare “più inclusiva”, tanto da non interessarsi di perdere la vecchia base di clienti. Emerge un sostanziale spostamento del focus aziendale, apparentemente lontano dalla concorrenza e dal profitto. Viene sacrificano un obiettivo a breve termine (vendere rasoi e lattine di birra) in cambio di uno di lungo termine (la categorizzazione morale dell’impresa).

Sotto il profilo economico, questa strategia può essere sostenuta solo da grandi corporazioni allineate a un’agenda politica, in grado di resistere a un temporaneo crollo dei profitti senza cambiare linea, garantendosi in cambio un vantaggio nei confronti di concorrenti che non vogliono o non possono pagare il costo dell’adesione all’agenda woke. Più in alto, supercolossi come Black Rock diffondono la medesima agenda ed è sufficiente una lettera ai clienti per spostare flussi di capitali da un settore a un altro o per giustificare attività non in linea con l’interesse economico immediato degli azionisti. Nel caso di Black Rock, un intervento favorevole a investimenti “green” ha prodotto la crisi del modello energetico bastato sui combustibili fossili. Anche in questo caso, in base a motivazioni neo moralistiche.

Ogni società ha il proprio senso di moralità e le élite neocapitaliste non fanno eccezione. Il progressismo -fatto percepire come rivoluzionario e anti sistema- è la base egemonica che plasma la morale dall’inizio del secolo corrente. Cambiano le idee, uguale è l’imperialismo colonialista. Impone sempre criteri “morali”, per quanto opposti a quelli del passato. Egualitarismo d’accatto (i padroni restano tali e sempre più potenti) , relativismo morale, individualismo basato sull’autopercezione, desideri, emotività, malthusianesimo denatalista, allarmismo climatico e molti altri “ismi” .  

La demonizzazione della normatività di ieri impone una nuova normatività; è un cambiamento fondamentale nel modo in cui calcoliamo il valore di un prodotto. Le icone scelte come immagini del marchio sono incoerenti in un mercato competitivo, ma efficaci in un ambiente soffocante di correttezza politica, cultura della cancellazione, riconfigurazione di valori. Le grandi corporazioni promuovono un’agenda morale gonfia di ipocrisia: un prodotto non si acquista più per la sua strumentalità, ma per il fatto che con esso ci poniamo dalla parte del bene. Ecco perché in questa aspirazione rieducativa c’è qualcosa di orwelliano, di totalitario.  

Si è compiuta l’intuizione di Philippe Muray: il progressismo occidentale- nato nelle officine post Sessantotto e presto cooptato dallo Zelig capitalista- ha la pretesa di incarnare la guerra contro il Male, reinventando la moralità. La crescente ossessione delle classi più potenti del sistema economico di imporre la propria morale capovolta rispetto ai secoli passati, è un’evidente minaccia alla libertà. Quintana cita due autori che hanno analizzato le trasformazioni del capitalismo, Luc Boltanski e Ève Chiapello. La penultima mutazione risale agli anni Settanta del secolo XX: un capitalismo in cui si svolgevano lavori monotoni – nella catena di montaggio, in ufficio, in mansioni simili per tutta la vita – ma in cambio si aveva un lavoro che spesso durava per sempre.  

Lo spirito nuovo venne dall’accoglimento nel capitalismo di gran parte delle istanze del Sessantotto. I protagonisti di quella stagione pensavano di essere rivoluzionari anticapitalisti, ma finirono per fornire all’avversario le armi culturali più potenti. Vietato vietare: nessuno slogan è più gradito agli “spiriti animali “neoliberisti. Il nuovo capitalismo, messo in soffitta il fordismo, aveva bisogno di lavoratori capaci di adattarsi alle continue metamorfosi dell’economia, flessibili, che non dessero nulla per scontato, nemmeno il loro lavoro. costantemente disposti a innovare, perché solo così credevano di realizzarsi. L’altra faccia è la precarietà, la costante incertezza del futuro, la conseguente fragilità delle relazioni familiari e personali.  

L’ultimo abito di Zelig è moralistico: il sistema non si limita più a promuovere valori come la mobilità, l’innovazione e il cambiamento, ma impone un’intera agenda “morale”. Esemplare è il caso di James Damore, il funzionario di Google licenziato per aver espresso in un questionario, dopo un seminario sulle differenze di genere, opinioni morali non coincidenti con l’ideologia aziendale. Un’ ulteriore minaccia del capitalismo moralistico: le aziende possono indagare sul nostro modo di pensare, licenziare o discriminare se non concordiamo con le idee dei proprietari.  Nel caso di Gillette e Budweiser, si è verificata una rottura rispetto al tradizionale modo di pensare delle imprese: hanno preferito perdere clienti nell’immediato in cambio di una predicazione morale “progressista”. Questo rompe con l’idea per cui le aziende sono interessate esclusivamente a generare profitto per gli azionisti, non a indottrinare su presunte verità morali. Un ulteriore esempio è il destino di una legge (assai discutibile) dello stato americano della Carolina del Nord, che vietava l’uso dei bagni femminili ai transessuali. La legge è stata abrogata non per le pressioni dell’opinione pubblica, ma per la rivolta “morale” di decine di grandi corporazioni, che hanno ritirato i loro investimenti e attivato boicottaggi economici. La pressione del capitalismo moralista ha cambiato la legge, infliggendo un duro colpo alla sovranità democratica e al potere legislativo.  

Il mondo dell’impresa, santuario indiscusso del capitalismo, sta imponendo una precisa ideologia “morale”, coincidente con il progressismo libertario della sinistra postmoderna. Naturalmente, le aziende non hanno un punto di vista morale. Chi ce l’ha sono i soggetti che le dirigono, i loro reparti creativi, pubblicitari, di marketing. Chi sta cercando di introdurre l’ideologia ovunque non sono le aziende. Non è il rasoio Gillette o la birra ad avere un’ideologia o un intento morale, ma una classe sociale privilegiata di imprenditori, dirigenti, creativi di alto rango, pubblicitari e intellettuali, i ceti globalisti con master all’estero, residenti nei quartieri ricchi metropolitani.  Un gruppo umano minoritario tende a imporre un punto di vista “morale” alla società intera in nome di un impero del bene autoreferenziale e indimostrato. Non è tollerabile l’imposizione pseudo “morale” unita all’enorme potere di pressione di una classe sociale privilegiata. In ordine di tempo, l’ultimo frutto del capitalismo moralista è la vicenda di Tucker Carlson, la stella della rete televisiva Fox. Il giornalista, di orientamento conservatore, critico con il mainstream americano sia sui temi geopolitici che su quelli etico-morali, è stato licenziato. Il contraccolpo in Borsa è stato duro, con forti perdite per Fox. Intanto un avversario dell’agenda “morale” è stato cacciato.  

Tutto ciò dimostra che la vecchia tesi liberale secondo cui nel capitalismo conta il merito è una bugia gigantesca: Carlson faceva guadagnare Fox, come i buoni rasoi arricchiscono Gillette. Dunque, le leggi del mercato- ultima religione rimasta all’Occidente- sono derogate dagli stessi che le impongono in nome di una visione del mondo tesa a cambiare nel profondo i popoli-sudditi.  La nostra libertà è minacciata da nuovi pericoli provenienti dalle oligarchie dirigenti. Contro di loro possiamo solo ricorrere a una vecchia risorsa: lottare per la libertà. Dobbiamo smettere di prestar loro fede e prendere atto che le classi dominanti sono nostre nemiche.  Sta terminando la stagione del liberalismo classico, del parlamentarismo che, già ai suoi albori, Donoso Cortés chiamava la “discussione eterna”.

Vince un capitalismo non solo moralista, ma “cinese” nel senso di violento, autoritario sino al totalitarismo.  Nel caso di Damore, il colosso Google, dopo aver costretto i dipendenti a seguire corsi ideologicamente orientati, ne ha sondato le convinzioni e ha cacciato chi – confidando nella libertà – ha espresso opinioni non in linea con i codici aziendali. In Carolina del Nord, contro una legge sono scesi in campo dirigenti di Apple, United Airlines, Bank of America e Goldman Sachs, firmatari di una lettera che ne esigeva l’abrogazione. PayPal e CoStar Group hanno annullato i loro piani operativi in ​​​​quello stato; la lega del basket ha annullato le partite, il mondo dello spettacolo ha cancellato lo stato dai luoghi in cui effettuare riprese o ambientare film.

La rivista Forbes ha stimato che la legge sia costata al Nord Carolina seicento milioni in sette mesi. Ha funzionato una strategia che l’uomo d’affari Tim Gill ha chiamato “punire i cattivi”.  Questo mostra un ulteriore aspetto del capitalismo moralistico. I suoi dirigenti non solo accettano di perdere soldi per predicare la loro moralità; non si limitano a licenziare persone le cui opinioni etiche non corrispondono alle loro. Si tratta di un capitalismo in cui se la democrazia approva una legge che non piace alla sensibilità “morale” delle grandi corporazioni, queste hanno il potere e la concreta volontà di cancellarla. È questo il mondo in cui vogliamo vivere? Un sistema in cui i dirigenti aziendali decidono a quale moralità dobbiamo aderire, dove possono licenziarci o cambiare le leggi se si allontanano dalla loro retta via? Non lasciamoci ingannare dalle parole: capitalismo moralista, sì; ma non certo morale.

 

Immagine: https://www.contocorrenteonline.it/

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