Il voto: come il sonaglio per l’infante


 

Il voto: come il sonaglio per l’infante

Era come se stessimo per nascere, dopo un’abbondante gravidanza, e nuotassimo, le manine rosa, gli occhi gonfi di un’attesa limpida e primitiva, nel liquido amniotico. I dardi al curaro di Ennio Flaiano, la raucedine di Ungaretti, i nomi che scorrevano sul ‘gobbo’ della nostra esistenza, Attardi, De Chirico, Calvino, del tutto indifferenti al fatto che li si schierasse per un quattro-quattro-due o per un quattro-tre-due-uno, andava bene lo stesso.

Poi, all’improvviso, é finito tutto, non perché le cambiali del ciclo biologico, fossero andate, una ad una, all’incasso, ma perché il ventre della signora Italia si é inopinatamente seccato.

Un presepe spettrale, schiaffeggiato dal sole estremo, quello dei primi film di Sergio Leone, benché nei secondi, suggellati da ‘C’era una volta in America’ si trovi la risposta a tanta desolazione: in quella battuta, la più pacata e la più esplosiva dell’intera storia del cinema, con cui Noodles rivela -. a domanda dell’amico locandiere su come avesse trascorso il tempo dall’ultima volta in cui si erano visti – di essere andato ‘a letto presto’ la sera.

Con la riguardosa supponenza che io debbo ad un genio, nel provare a sagomare le similitudini giuste, avanzo anche il sospetto che questo Paese si sia smarrito lungo l’arco voltaico che congiunge, sfrigolando, tale battuta all’ultima scena del film, quella in cui Noodles si congeda dagli spettatori, assente e partecipe insieme, da sotto i titoli di coda che lo accompagnano silenziosi verso la fine.

E’ difficile, infatti, credere che il passaggio delle consegne dal nuovo Rinascimento italiano, di cui molti miei connazionali non si erano neppure accorti, a questo remake di Bisanzio che ha per protagonisti un ‘vile affarista’ dalla faccia di drago, col suo sontuoso contorno di mezzi scemi, di baldracche e di nani, sia potuto avvenire, sia pure per gradi, una dissolvenza dietro l’altra, dal chiaroscuro al bianco giallo di una canottiera sudata, senza la complicità di tutte quelle persone – me compreso – che andavano ‘a letto presto’, immaginando che le cose si sarebbero aggiustate da sole.

Eppure, già a cercare di mettere un po’ di ordine nella genealogia dei lutti e dei flagelli che hanno colpito il Paese, ci si accorge che, ancor prima del ’92 – annus horribilis per definizione, segnato da un panfilo inglese che stazionava al largo di Civitavecchia – e di seguito a tale data, praticamente fino ad oggi, un plotone d’esecuzione formato da fantasmi e comandato da remoto ha parodiato il 3 maggio del 1808 di Francisco Goya decimando gli esponenti di una cultura ‘diversa’ da quella progettata dagli eredi di Yalta e perfezionata, più avanti, dai chierici del mainstream.

Quel lampo rosso nel cielo di Bescapé che inghiottiva Mattei; uno strano incidente d’auto per zittire Rino Gaetano; il volo dal cavalcavia di Edoardo Agnelli, il capitalista per caso che se ne fregava di Gianni; la pizza di carne in cui riconobbero a fatica Pier Paolo Pasolini, su di un anonimo sterrato di Fiumicino; l’assunzione in cielo, in assenza di testimoni, di Mauro De Mauro; una Ranault 4 color aragosta che si apriva, come una lugubre bomboniera, sulle spoglie di Moro; gli occhiali e l’orologio, ed altre utili cianfrusaglie sul comodino, mentre il loro proprietario, un economista keynesiano, Federico Caffè – per il Mercato, un pessimo soggetto – si scioglieva come l’alkaseltzer nel chiarore di un’alba qualsiasi – era il 1987 – e nessuno lo vide più.

E’ fuori discussione il fatto che l’Italia abbia perso, nel corso di una discesa di cui é difficile stabilire l’inizio, ogni residuo ritegno da quando la Mafia internazionale l’ha affidata alle cure dell’attuale classe politica: che in realtà non fa politica (come mai potrebbe con i di maio, con gli speranza e con le boldrine?), un lusso eccessivo per un Paese che deve fare da show-room, la dimostrazione pratica di come basti togliere ad uno Stato il controllo dell’economia e fargli morire dentro la scuola, perché tutti i talenti di una Nazione si rattrappiscano nel margine infinitesimale concessogli dal profitto – tenga buon uomo! – e la Nazione stessa, segregata nella scatola di vetro di una falsa democrazia, si neghi al futuro, considerandolo alla stregua di un’escrescenza patologica: non é infatti per caso che oggi la maggior parte degli alunni metta per iscritto nel compito in classe di vedersi grande, da grande, nel ruolo di un rapper e che quello dell’ingegnere sia sprofondato negli ultimi posti della classifica, a ridosso della serie ‘B’. L’effimero penetra da ogni lato suscitando nelle menti più deboli il falso convincimento che ci sia una continua rigenerazione piuttosto che una lunga serie di fallimenti, di persone, di cose e di situazioni che durano poco perché il loro terreno é privo dei valori essenziali, come il merito, la Patria, la famiglia, l’uomo di Vitruvio che si accartoccia su stesso, in preda ad un’implacabile artrosi.

Non mi sorprende, ma proprio per niente, il fatto che due noti abitanti di questo mondo, due ragazzini pieni di soldi ma poveri in canna di tutto il resto, si siano fatti fotografare accanto al presidente della Repubblica che sorride insieme a loro, un cammeo eloquente all’interno del quale non figura, per ragioni di spazio, il giudice che ha assolto il ragazzino dall’accusa di aver dato dell’infame’ e del ‘cane’ ai carabinieri in una canzone che riscuote molto successo presso il pubblico imberbe: il moto sodale di tutte le sfere che compongono un ‘sistema’ – il nostro, che fa semplicemente schifo – oppure l’arcaico proverbio secondo cui la puzza del pesce non comincia mai dalla coda: fate vobis.

Le elezioni che si avvicinano – le prime dopo un lungo periodo di black-out – annunciano un’urgenza, che é di molte spanne al di qua dell’astensionismo totale, una soluzione che potrebbe, all’atto, trovare ricetto solo nei dormiveglia pomeridiani di un Isaac Asimov, molto simili ai miei, o nelle quartine buone di Nostradamus: é necessario , cioé, scompaginare il verminaio delle Sinistre e cominciare a liberare questo disgraziato Paese dall’incantesimo che gli hanno imbastito addosso i manutengoli dell’Unione Europea e i camerieri in marsina nera della Cupola atlantica, ma con la dolente consapevolezza che si tratta, in ogni caso, di una virgola, non di un punto e a capo, di un trascurabile progresso verso l’uscita dal tunnel, fermo restando che i ‘sistemi’, come il nostro, che si costituiscono attraverso l’osmosi della magistratura corrotta, dei media corrotti e degli apparati dello Stato, anch’essi corrotti, funziona esattamente come il flipper, dove la pallina, gira e rigira, cade sempre dalla stessa parte, e dove, inoltre il voto, divenuto un ignobile succedaneo della piazza, agisce sui cittadini some il sonaglio che si scuote sulla faccia dell’infante agitato.

Al massimo, a star larghi, sarà Trump contro Biden, ma in formato mignon, date le misure lillipuziane del Paese, con una Destra – come, appunto, si definisce – che per farsi accettare dai padroni del mondo ha serrato a sinistra, il luccichio troboscopico dell”Aspen Institute’, l’atto di sottomissione alla NATO, lo sguardo moscio da cane bassotto di Salvini, un istrione scarso che si rifiuta di smettere: é tutto ciò che passa il convento.

 

Immagine: https://www.interno.gov.it/

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