APPROFONDIMENTI: In memoria dei Romanov, a cent’anni dal martirio

 

APPROFONDIMENTI: In memoria dei Romanov, a cent’anni dal martirio

Ci sono eventi che nella Storia lasciano un segno indelebile, tali da determinare un punto di non ritorno, di svolta, di trasformazione, per e dopo i quali si percepisce un cambiamento destinato a perdurare nei tempi avvenire.

Uno di questi fu senza ombra di dubbio lo sterminio della famiglia imperale dei Romanov, operata dall’allora nascente regime sovietico, nel lontano 1918, un secolo fa.

Ricostruire con esattezza gli eventi è una pretesa che non mi arrogo; lascio con piacere questo ardito lavoro agli esperti. Nel mio scrivere, cercherò soltanto di riportare alla memoria alcuni tratti salienti della infausta vicenda, provando a darne una lettura che riesca ad elevare i nostri animi alla comprensione del mistero profondo che essa racchiude.

Era il 14 aprile del 1917. Dopo aver abdicato, Nikolaj Alessandrovitch Romanov (50 enne), Alix Aleksandra Fedorovna Hesse Romanova (46enne) e i loro cinque figli, partivano da Zaraskoie Selo, reggia melanconica negli anni fastosi, prigione dorata nei giorni di sventura.

Dopo aver percorso un lungo tragitto, parte in treno, parte in batt, fratreno e battello ello sul Tobol, affluente dell’Ob, i Sovrani detronizzati e prigionieri giungevano a Tobolsk: l’antica città della Russia asiatica, popolata di 25 mila abitanti dediti al commercio delle pellicce, scelta dal Governo Provvisorio di Pietrogrado quale luogo di relegazione della famiglia non più imperiale.

L’ironia del destino si accaniva contro le misere vittime. Colui nel cui nome, appena pochi mesi prima, tanti e tanti infelici erano confinati oltre gli Urali, si trovava ora, in mezzo alla sterminata pianura della Siberia gelida e semideserta, ergastolo immenso della più potente autocrazia del mondo.

Durante la dittatura Kerenskyana, la prigionia di Nicola e dei suoi fu mite o almeno sopportabile. Le condizioni dei miseri peggiorarono assai, invece, dopo l’avvento al potere dei bolscevichi di Lenin. I relegati sopportavano ogni umiliazione ed ogni privazione con animo rassegnato. Lo Zar deposto uscì dal proprio misticismo abulico solo quando venne a conoscenza della pace vergognosa di Brest-Litowski. Allora l’animo suo, piccolo nella prosperità, grande nella sventura, arse di sdegno. L’imperatore divenuto un povero deportato in Siberia, schernito, ridotto quasi all’indigenza, non aveva mai avuto parole di rancore verso i suoi aguzzini. Ma quando seppe che dai Bolscevichi era stato sottoscritto un trattato ignominioso, che rendeva vano il sacrificio eroico di un milione e settecentomila giovani caduti sul campo della gloria, allora il suo dolore esacerbato e la sua ira ebbero scatti incontenibili di amarezza.

Nella primavera del 1918, i Leninisti giudicarono Tobolsk troppo esposta ad un colpo di mano delle forze antisovietiche ed assegnarono una nuova residenza agli sventurati prigionieri.

Il 26 aprile, ebbe inizio la deportazione. Destinazione scelta fu Ekarterinburg, sulle falde orientali degli Urali metalliferi, quasi al confine tra la Russia europea e la Siberia.

Per ironia della sorte, in questa cittadina gli operai del luogo riproducevano in passato l’immagine dello zar a milioni di copie, perché proprio qui, in questa città mineraria aurifera, sorgeva la zecca imperiale

L’ultima residenza degli Zar fu la casa dell’ingegner Nikolaj Ipatiev, che in poche ore fu scaraventato fuori dalla sua abitazione. Si trattava di una palazzina su più piani, recintata, con un piccolo giardino. Intorno all’ edificio fu costruita una seconda palazzina molto alta, venne innalzato un recinto ancor più alto con tre garitte, postazioni per due mitragliatrici e ben 54 uomini di guardia, scelti nelle officine di Sjsertsk.

Una singolare coincidenza legava il nome di “Ipatiev” alla famiglia dei Romanov. Trecento anni prima, proprio nel monastero di Ipatiev, vicino all’antica città di Kostroma, Mikhail Romanov era stato proclamato Zar, dando origine alla dinastia dei Romanov; ora quello stesso nome stava per legarsi al loro definitivo tramonto.

La famiglia fu deportata poco a poco, separando i membri, con trasporti in treno distanti qualche settimana. Le condizioni di vita cui vennero costretti sono considerabili ai limiti della galera di un qualsiasi delinquente.

Il piccolo Aleksej, il principino, si fece subito male al ginocchio, pare giocando imprudentemente sulla scala del palazzo, in quel solo quarto d’ora al giorno che gli era consentito di libertà e aria nel modesto giardino della nuova residenza. Le principesse furono costrette a dormire tutte assieme allo stesso piano in cui risiedevano anche 19 soldati, con le porte di camera sempre aperte e, davanti l’unico bagno presente, una guardia di picchetto giorno e notte che le accompagnava. Persino a tavola non venivano risparmiati dalle umiliazioni: la posateria era contata per 5 persone, mentre loro in famiglia erano 7, più i soldati, dovendo quindi condividere forchette, coltelli, cucchiai. L’intendente Adveev, preposto alla amministrazione degli internati, si permetteva di prendere bocconi di cibo, con le mani, dai loro piatti. La sera le donne principesse erano spesso costrette a suonare per i soldati anche fino a molto tardi. L’esercizio fisico era del tutto interdetto. I vetri delle finestre erano stati dipinti di bianco, affinché il sole non passasse dalle finestre. Tutto quello che poteva risultare umiliante, molesto e insopportabile, veniva loro prescritto come norma di vita.

Mentre loro vivevano questa prigionia fatta di soprusi e violenze, a Mosca era già stato deciso di sterminare la famiglia imperiale. L’intendente Adveev venne ben presto sostituito con il commissario della CEKA Jurovskij, che aveva ricevuto ordini ben precisi, assieme a 10 Cekisti, di origine occidentale, che loro chiamavano “i lettoni” perché convinti che venissero da qualche provincia lontana dell’impero, ma per lo più erano tedeschi e cechi. Proprio loro saranno quelli che, in seguito, spareranno alla famigliae alle poche persone della corte ancora appresso. Non a caso, si trattava di stranieri: non riuscirono a trovare nessun russo, nemmeno fra i compagni rossi, che osasse trucidare i propri sovrani.

Come si addice ad una prigionia di alto livello, il male non viene procurato solo fisicamente, ma anche moralmente, psicologicamente. Alla fine di giugno, infatti, cominciarono a fargli arrivare falsi messaggi, scritti  in un francese incerto, nascosti nel tappo delle bottiglie del latte che ogni mattina giungevano dal Monastero di Santa Caterina. La zarina, però, si accorse presto delle anomalie linguistiche. Quei messaggi erano scritti e posizionati da un dirigente del soviet di nome Petr Vojkov, con i ricordi del francese appreso alla Università di Ginevra, doveva aveva studiato da ragazzo. Tutto procedeva con un ritmo deleterio.  

La notte del 25 giugno a Perm venne ucciso il fratello dello Zar, Mikhail, precedentemente prelevato col suo segretario all’albergo dove soggiornava da tre uomini che lo portarono ad una destinazione sconosciuta, assieme ad altri aristocratici, come la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella dell’imperatrice. Un colpo secco di pistola, senza onori né memorie.

Nella casa della prigionia, la famiglia imperiale non aveva notizie di tutto ciò che accadeva al di fuori.

Giunse infine il fatidico giorno. Di martedì 16, Jurovskij fece portare nel seminterrato 14 pistole nuove, testate due giorni prima; fece sgombrare la stanza eletta per l’esecuzione e accomodare nella stanza a fianco i 10 assassini prescelti, con l’ordine di mirare al cuore. Nel cortile, intanto, venne parcheggiato un camion FIAT con il motore acceso, per soffocare il rumore degli spari.

La sera di quello stesso giorno, Tatiana lesse alla madre il libro del profeta Amos, che parla di chi “ha bruciato le ossa del Re per ridurle in calce”. La Parola di Dio non manca mai di essere profetica.

Alle 22:30 le luci vennero spente come da protocollo. A mezzanotte, però, si riaccesero. I prigionieri vennero svegliati con la scusa del pericolo di un assalto, per essere quindi condotti alla stanza predisposta. Con loro anche i membri della corte rimasti: il dottor Botkin, la cameriera della zarina Anna Demidova, il cuoco Ivan Kharitonov, il lacché Aleksej Trup.

L’imperatore teneva in braccio il figlio Aleksej, indossando entrambi il cappello militare con la visiera, mentre le ragazze vestivano lunghe sottane nere con corpetti di seta bianca, nei quali la zarina aveva fatto cucire loro i gioielli segretamente. Anastasia portava con se lo spaniel Joy, il loro amato cagnolino.

Jurovskij, che in gioventù era stato fotografo, li fece disprre a ventaglio in modo che non si sovrapponessero. Uscito un attimo dalla stanza, rientrò con gli uomini armati, e lesse da un foglietto: “Nikolaj Aleksandrovic, i vostri hanno tentato di liberarvi, e per questo motivo dobbiamo fucilarvi tutti “. Lo Zar sembrò non intendere:”Come? Come?” furono le sue ultime parole. Alix e Tatjana si faceron segno della Croce. Jurovskij sparò alla carotide dello Zar, finendolo da un passo, quindi sparò alla testa di Aleksej gettandolo a terra. Intorno la carneficina impazzava: Alix crollò sul dorso, Anastasija si muoveva a carponi e venne finita a colpi di baionetta, come la Demidova che si era riparata dietro i cuscini, mentre Trupp il lacché cadde in ginocchio, Olga e Marija muorirono subito, Botkin colpito al cuore, Tatjana alla nuca, il cuoco riuscì a lanciare un’ultima maledizione. Un colpo col calcio della pistola spezzò il cranio del cane. Dissipato il fumo degli spari, i soldati procedettero con la caccia ai gioielli della corona, depredando tutto il possibile dai cadaveri.

L’abominio non era ancora terminato. Gli undici corpi furono avvolti nelle coperte strappate dai letti di casa, caricati sul camion e, in piena notte, trasportati  verso la foresta, giungendo a Ganina Jama, dove c’erano numerose cave. Alla luce delle lanterne, i cadaveri vennero fatti a pezzi, sfigurati con l’acido e bruciati, per poi essere gettati nei buchi presenti nel terreno.

Ufficialmente venne letto a Mosca il 20 luglio un comunicato del presidio del Soviet di Ekaterinburg, che diceva “Poiché le truppe cecoslovacche minacciano la città e il boia coronato può sfuggire al tribunale del popolo, è stata decisa la fucilazione dell’ex zar, e la decisione è stata eseguita la notte tra il 16 e il 17 luglio. La famiglia Romanov è stata trasferita in un luogo più sicuro.” Nessuno proclamò mai la verità fino alla caduta del Comunismo, quando riemersero le ossa e, grazie ad un riscontro con il DNA, venne accertato che si trattava dei resti dei Romanov. La famiglia fu canonizzata nel 1981come nuovo martire dalla Chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia. Furono canonizzati insieme alla servitù che fu uccisa insieme a loro: il medico di corte Evgenij Botkin, il garzone Aleksej Trupp, il cuoco Ivan Charitonov, la domestica della zarina Anna Demidova, due servi uccisi nel settembre 1918, la dama di compagnia Anastasija Hendrikova e l’insegnante privata Catherine Adolphovna Schneider. Tutti furono canonizzati come vittime dell’oppressione dall’Unione Sovietica.

Anche la sorella di Alessandra, la granduchessa Elizaveta assassinata dai bolscevichi il 18 luglio 1918, fu canonizzata come martiredalla Chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia, con i suoi compagni di martirio il principe Ivan Konstantinovič, il principe Igor’ Konstantinovič, il principe Konstantin Konstantinovič, il granduca Sergej Michajlovič e il principe Vladimir Pavlovič Paley, Fyodor Remez, segretario personale del granduca Sergio e suor Varvara Jakovleva. Furono anch’essi dichiarati martiri dell’oppressione dell’Unione Sovietica.

Nel 1992la granduchessa Elizaveta Fëdorovna e Varvara Yakovleva furono canonizzate come martiri dalla Chiesa ortodossa russa; i principi e gli altri uccisi con loro non furono canonizzati.

Nel 2000, dopo molti dibattiti, l’ultimo zar e i suoi famigliari furono canonizzati come “portatori della passione” dalla Chiesa ortodossa russa, che però non comprese la servitù.

Il 17 luglio 1998 vennero solennemente celebrati i funerali di Stato nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo che ospita i sarcofagi storici degli Zar.

Cent’anni dopo 5 gigli bianchi crescono a fatica nella fossa, circondata dal legno del monastero dei Santi Martiri Reali, con 7 chiese per i 7 Romanov uccisi a Ekaterinburg. Pochi chilometri più in là, c’è il luogo dove hanno sotterrato le ossa e le ceneri. Una pedana di legno con le traversine del treno e una croce per Lo Zar, Alix, Olga, Tatjana e Anastasija. A pochi metri un quadrato di terra in pieno bosco, con due rose bianche e pochi mughetti segna la sepoltura di Marija e di Aleksej, lo zarevic infelice. Il monumento al massacro, la “Casa a destinazione speciale”, non esiste. Ripulita in fretta dai soldati, riconsegnata a Nikolaj Ipatev il 21 luglio, è stata distrutta nel 1977 e al suo posto adesso c’è la “Cattedrale sul sangue”, con il secondo altare che cresce proprio sopra la stanza maledetta, il pozzo originario intatto, brandelli sparsi dalla scena del delitto: la carta annonaria di Nikolaj, un pezzo del mancorrente della scala, la maniglia d’ottone della stufa, un dente da latte di Aleksej, che Alix conservava in un anello.

 

Ezio Mauro racconta che davanti alle tombe imperiali le vecchie aspettano: i resti o l’apparizione. Non è forse stata recuperata la croce dei Romanov, che all’interno ha le reliquie di 40 santi? Tutto è possibile. E non è tornata al suo posto l’icona della Madonna del Nord, che faceva ricrescere le mani mozzate? Tutto può ancora accadere. Mentre i ragazzi intorno scattano le foto col telefonino come a un concerto, indifferenti, loro ripetono che passerà il tempo finché lo Zar potrà ancora mostrarsi alla sua gente. E allora dalle terre lontane dell’Oriente l’imperatore verrà, uscirà dal bosco e dal mistero, giungerà fin qui con la sposa fedele davanti all’acqua della Neva.

La storia sembra finire e ricominciare qui, dove si è generata la grande epoca, in una città mobile come l’acqua che l’attraversa, dentro una fortezza, davanti a un altare, in un sepolcro. Ma basta uscire nell’aria chiara di San Pietroburgo per ritrovare gli altri spettri di quell’anno implacabile e crudele. Stalin e Kerenskij, Trotzkij in piedi davanti alla mappa della capitale che sta per conquistare, Rasputin che si muove di notte, mesi prima, tra gli zingari e i canali per raggiungere la sua fine nel palazzo del principe. Infine un’altra sepoltura, al centro della piazza Rossa a Mosca, con Lenin da quasi un secolo trasformato in mummia nella pretesa di imprigionare il passato e il futuro nell’eternità della rivoluzione, dilatando all’infinito il ’17.

La distruzione della dinastia dei legittimi sovrani di tutte le Russie era una passo oserei dire necessario all’interno del diabolico piano di costituzione del mostruoso regime sovietico. Una delle teste del “drago rosso” dell’ Apocalisse non poteva che bramare di divorare coloro che Dio aveva eletto ed unto come guide per i popoli russi. Questa è da sempre una costante delle rivoluzioni operate dai nemici di Dio e del bene comune: eliminare i legittimi sovrani, meglio se cristiani. La mefistofelica violenza con cui vengono architettate congiure come quella brevemente raccontata sopra, veramente travalica l’immaginabile; ogni minimo dettaglio viene calcolato strategicamente, e spesso anche esotericamente.

Uccidendo la famiglia imperiale, non venivano semplicemente fatte fuori delle persone: si è trattato di un atto cruciale per il processo di smantellamento dei valori, dei principi e dei costumi su cui era fondata la nobile Russia, quel glorioso impero del prossimo Oriente, certamente pieno di problemi e difficoltà, ma ancor più sicuramente benedetto per la sua fedeltà.

La Storia ci insegna che dove l’uomo sovverte i piani divini, avvengono sempre catastrofi. La Russia ha vissuto questa tragica verità, mostrando al mondo l’aspetto più brutale e disumano dell’ideologia marxista-comunista, il cui primiero obiettivo è dichiaratamente quello di stravolgere l’ordine naturale del vivere sociale, sia materiale che spirituale, per realizzare un utopico mondo senza problemi, che in realtà vuole essere senza Dio.

Guardare oggi, a distanza di un secolo, al martirio della famiglia imperiale di Russia, deve per noi essere anzitutto fonte di ispirazione. Nel loro esempio, possiamo scorgere la bellezza di una vita fedele alla sua vocazione, che si compie fino all’estremo di oblazione totale. Dare se stessi, sì tanto per il bene comune secondo il proprio ordine ella società, ma in ispecie nella abnegazione del proprio ego per la manifestazione del supremo Volere Divino, attraverso lo strumento misero ed umile che noi siamo.

Inoltre, sempre dobbiamo tenere presente la necessità di fare memoria del nostro passato e dei grandi che lo hanno segnato, per poter imparare dalla loro eroicità e dagli errori commessi, così da non commetterne più, promuovendo la via della perfezione propria di ogni popolo e nazione. Siamo nani sulle spalle di giganti, e il nostro futuro affonda le radici nel passato. Passato di gloria, di fasti e di conquiste, di battaglie, di sangue e d’armi, di regni e di imperi, della cui memoria siamo chiamati ad essere perpetui custodi, e per i quali ancora, oggi, siamo chiamati a lottare per ristabilirli. Lì, dove, come e quando l’Onnipotente Dio li ha voluti.

Possa il ricordo della famiglia imperiale Romanov splendere come esempio fulgente nel firmamento degli animi nobili che hanno segnato la Storia. Possiamo noi, nella loro memoria, apprendere rinnovato coraggio per compiere la nostra battaglia.

 

 

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