Iperconnessi e sradicati

 

Iperconnessi e sradicati

Un treno regionale, interno giorno, ore 13. La stazione è quella di una cittadina sede di scuole superiori. Salgono a frotte ragazzi e ragazze dei licei. Il viaggiatore di una certa idea è immerso nella lettura di un libro di Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, ricco di citazioni e povero di idee. Sussulta, infastidito dall’arrivo degli invasori. Teme la gioiosa confusione, il “casino” adolescenziale. Invece no. I ragazzi prendono posto e dopo qualche isolato urlaccio, sono tutti connessi in silenzio. I più chattano su Facebook o fotografano se stessi per postare le immagini, qualcuno inforca l’auricolare e ascolta musica.

Stupito, il signore di una certa età chiude il libro e osserva due studentesse ben vestite. Si sono sedute educatamente di fronte a lui, un manuale di greco sporge dallo zainetto di quella bruna. Sono del liceo classico. Dopo un commento negativo su una professoressa che “preferisce i maschi” e “non sa insegnare”, le ragazze attaccano un argomento che deve appassionarle da tempo. Si entusiasmano per le prossime vacanze pasquali, che sperano di trascorrere all’estero, ma soprattutto discutono del loro desiderio di vivere fuori dall’Italia. Le opinioni divergono nel giudicare se sia più eccitante (dicono proprio così) New York o Londra. Parigi non interessa, una azzarda Shanghai, ma il giudizio dell’altra è senza appello: imparare il cinese è troppo difficile.

Iperconnessi e sradicati. Per confermare la propria esistenza in vita smanettano compulsivamente su Facebook. Giudicano tutto e tutti, in genere senza sapere nulla delle questioni che affrontano. Le due ragazze del classico non dicono parolacce, ma lessico e sintassi sono elementari. Al liceo Doria di una volta, avrebbero collezionato pessimi voti, matita rossa e blu, forse la bocciatura. Gli altri vivono, apparentemente beati, nell’universo virtuale rappresentato dallo smartphone. La perizia con cui lo utilizzano desta l’invidia generazionale del signore seduto – unico adulto- nel vagone di Trenitalia.

In pochi minuti saranno a casa. I genitori-bancomat saranno assenti, lavorano, molte famiglie sono sfasciate, il pranzo è nel frigo, la tavola l’ha preparata qualcuno, lo stesso che ha lasciato le istruzioni via SMS. Mangeranno da soli, i figli unici abbondano, presto si ritufferanno nell’universo virtuale. Sono gli hikikomori in sedicesimo della porta accanto: pc, iphone, smartphone. Hikikomori è la parola giapponese che designa le persone dipendenti dalla connessione perpetua alla rete, barricati in casa sino all’agorafobia, quelli che rinunciano alla vita reale a favore di quella virtuale. Temiamo sia il destino di molti. Sradicati, quindi incapaci di appartenere a un luogo o a una causa, avvitati al presente, ignari del passato, sospettosi del futuro, disinteressati alle domande di senso.

Paradossalmente, gli sradicati sono sensibilissimi all’esteriorità. Vivono in una bolla tesa all’apparire, spiare dal buco della serratura, dipendenti dall’emozione, l’attimo carico di adrenalina. Tutto è banalizzato e insieme enfatizzato. E’ la società dello spettacolo, in cui si vuole guardare quanto apparire, spiare dal buco della serratura e intanto esibirsi. L’icona del pop, Andy Warhol capì per primo che il nostro è il tempo in cui ognuno può aspirare a un quarto d’ora di effimera celebrità. Quel quarto d’ora si trasforma in diritto, ossessione, un carpe diem composto di puntini, come i quadri di Seurat.

Senza radici, si è preda del conformismo, delle idee ricevute, della rassicurante sensazione di essere “come tutti gli altri”, massa anche nella solitudine. Iperconnessi, si dipende dalla società dello spettacolo, dai suoi impresari, protagonisti, sceneggiatori. Mai un’idea personale, si rumina come bovini d’allevamento il pastone vitaminizzato OGM predisposto da chi organizza il gioco. La maggioranza non si chiede neppure più chi e che cosa ci sia dietro lo schermo, vive e basta.

Ritorna la lezione di Marshall Mc Luhan: il mezzo è il messaggio. Connessi dunque sradicati, superficiali, conformisti. Da uomini e donne a protesi intercambiabili della macchina globale.

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