«Non è affar mio ammaestrare con una predica. Anche senza di ciò l’arte è già un ammaestramento. Mio compito è parlare per mezzo di immagini viventi, e non per mezzo di ragionamenti. Io debbo mostrare la vita in faccia, e non trattare della vita». In effetti, come dar torto a Gogol’? Tuttavia, anche personaggi “insospettabili” condividono tale penetrante pensiero: «Quanto più nascoste sono le vedute dell’autore, tanto meglio è per l’opera d’arte» afferma nientemeno che Engels e anche Carlo Marx, per non sembrare uno sprovveduto, sostiene che nell’arte è indispensabile nascondere la tendenza in modo che essa non spunti fuori come «una molla da un divano rotto». Fede o meno, dunque, certe cose restano oscure solo agli sciocchi, e oggi tal genìa ha ingrossato alquanto le fila.
Prendiamo come esempio l’arte moderna per definizione: il cinema. Dire chiaramente, spiegare ogni cosa nella maniera più efficace e coinvolgente possibile: non vi è preoccupazione più grande per la stragrande maggioranza dei registi. Eppure se si dice tutto, se non si lasciano zone oscure, ecco che allora l’immaginazione non ha più spazio, che lo spettatore ha sì raggiunto la meta a cui lo volevamo condurre, ma cosa ne ha veramente guadagnato? Vedi un assetato e sai che sul monte c’è una limpida sorgente; gli chiedi di seguirti, gli mostri la strada. L’unica cosa che l’assetato deve fare è avere fiducia e buona volontà. La salita non sarà certo facile, ma la fatica non è mai energia persa, perché essa simboleggia la salita verso gradi di consapevolezza superiori. Se invece non lo accompagni fin lassù, avrai lasciato lo spettatore assetato. In qualche modo avrai insultato la sua dignità. Fra artista e spettatore vi dovrebbe essere quindi reciprocità, ma questa viene completamente a mancare se si costruisce l’opera seguendo a puntino le regole della consequenzialità, della ferrea logica narrativa, in cui ogni singola scena confina il suo “senso” solamente nelle azioni che sviluppa e nelle emozioni che suscita; se l’opera non si eleva dal piano dell’immanenza, se non apre le porte dello spirito, se non mira a congiungere il mondo delle «acque che sono sotto il firmamento» con quello delle «acque che sono sopra il firmamento».
A volte si calca talmente la mano da rendere fin troppo esplicito un messaggio, un’idea che l’autore vuole convogliare. L’opera così stride perché risulta sbilanciata verso l’ideologia (politica, sociale, ecc.). E poiché il cinema, se possibile ancor più che le altre espressioni artistiche, è la mano suadente delle forze sovversive che spandono veleno ovunque, non può che chinarsi pericolosamente verso talune ideologie. Tuttavia, non si può negare che il più delle volte rimanga comunque del “mestiere”, della genuina “sapienza artigiana” a mantenere una certa organicità, una riconosciuta efficacia. Proprio qui sta il punto che ci interessa.
Irritati o scandalizzati da certe derive ideologiche, sorgono allora taluni sprovveduti dall’animo di un infante che pensano di contrapporre all’infero nemico un candido messaggio, lavato a dovere ed esposto all’aria a sventolare. Un messaggio chiaro, inequivocabile e forte, ma di segno opposto che – credono – educhi ed elevi l’animo (sic!). Questa però non è affatto la natura della battaglia intellettuale a cui oggi si è chiamati, semmai solo un misero battibecco delle ideucce. Non vi si troveranno condottieri o eroi sul campo.
In realtà le schiere della Sovversione avranno sempre la meglio, bisogna dirlo chiaramente. Si tratta di comprendere a fondo la sintesi tra Forma e Materia. Come già accennato, se si rende troppo manifesto un determinato messaggio, l’opera ne risente, eppure ci si mantiene ancora entro i confini della dignità, perché la Forma – l’immaginario nel quale trova collocazione lo specifico stile dell’autore – “contiene” quel messaggio. In altre parole, esso fa parte di “quel mondo”. Se invece tentiamo maldestramente di inserire contenuti moralmente o socialmente contrastanti nel medesimo universo formale, allora il risultato non potrà che apparire dozzinale, stonato, quando non addirittura patetico.
Gli uomini, molto spesso esecutori inconsapevoli, che operano per le forze della Sovversione, dominano in ogni campo la società per il semplice fatto che proprio tali forze l’hanno costruita e plasmata. Forze che sono alla radice tanto dello spietato capitalismo che dell’illusorio comunismo. In entrambi i casi, espressioni del regno della tecnica, del lavoro che si fa meccanizzato, in una parola del materialismo. Nella loro casa essi quindi sono gli unici padroni. Questo mondo è esso stesso un enorme universo immaginario, e quello artistico ne è l’estensione immateriale. Entrambi, dunque si fortificano e cesellano vicendevolmente, trascinando l’umanità verso il precipizio. La liberazione si raggiunge allora in un unico modo: fuggendo da questa trappola mortale.
Alcuni momenti dell’esistenza condividono sensi plurimi, all’apparenza persino contraddittori, ma così forti da permanere nella coscienza finché una luce non li illumini. Questa sintesi conoscitiva che supera la comprensione umana è il mistero che anela toccare l’arte. L’arte toglie tranquillità, chi cerca sollievo o solo conferme alla sua vita si mette da solo fuori dei suoi confini. L’arte non è quindi indottrinamento, ma deve invece essere come una scintilla che dà vita ad un fuoco, come una spinta a mettersi in cammino, prefigurazione di una ricerca spirituale. Non deve fare adepti di un pensiero o di una fazione, poiché l’immagine artistica non si presenta come un manifesto con un bello slogan in vista. Pertanto, invito coloro i quali dicono di opporsi alla tumultuosa corrente dello “spirito di questo mondo”, a riconoscere finalmente che solo una ristabilita forma può assorbire un diverso contenuto, o, all’inverso, che abbiamo bisogno di un altro linguaggio sotto un altro cielo.