«Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile; / non so, ma è proprio così e mi tormento.» È nella vicinanza che si generano l’amore e l’odio, talvolta intrecciandosi misteriosamente. Il fuoco che balugina lontano appare come un lume spossato, ma quando arde davanti a noi, ne siamo spaventati e attratti allo stesso tempo. Sentiamo le sue fiamme scaldarci la pelle, trafiggerci gli occhi. La sua forza è ora potente e maestosa. E come l’amore e l’odio, così anche il Bene e il Male acquistano vigore con la prossimità e si scambiano “fraternamente” le vesti. Del resto, è bene ricordare che null’altro può fare il Male, se non scimmiottare il Bene.
All’orizzonte si addensano i nemici, ombre sfuocate tra i vapori di sale che si alzano dalle acque. Molte onde devono ancora passare prima che le armi si incrocino; e un nemico lontano è un nemico facile da vincere, le cui lame non fanno ancora tremare le nostre viscere. Quando lo stesso nemico, però scavalca i muri delle nostre terre, allora il respiro diviene affannoso, la gravità impone di agire. Ma se addirittura scoprissimo il nemico agguantare già i nostri vestiti, e graffiare la nostra pelle?
È sempre l’immaginazione che guida, e la nostra difetta gravemente. Il respiro suggerisce la visione e un fiato corto e scomposto, genera una vista intorbidita. Bisogna sollevarsi dalla polvere che raschia i polmoni, impasta la bocca e accieca lo sguardo; più in alto, dove l’aria è pulita e fresca. Non serve tanto domandarsi quanto male siamo capaci di sopportare, ma piuttosto quanto grande è l’idea di male che siamo in grado di tollerare.
Così accade oggi: nel mare vasto noi ci immaginiamo delle “isole del male” su cui è sufficiente non attraccare, o da cui fermare gli abitanti prima che vengano ad appestare la terraferma; e quand’anche queste isole divengano tante, arcipelaghi e arcipelaghi, e i mari tutti, infestati da briganti, noi troveremmo un porto sicuro in cui rifugiarci sereni.
Ma se invece il male ricoprisse l’intero globo, dagli oceani alle vette? Una sola nube scura che si stende su ogni cielo, da parte a parte? Lo sgomento sarebbe troppo grande, un fremito percorrerebbe il nostro corpo, gli occhi si spalancherebbero rigidi e vuoti, e il cuore, in un ultimo sussulto, cederebbe di schianto. Eppur questa è la vera immagine che i nostri occhi appannati non riescono a mettere a fuoco, perché non hanno forza di tollerarla. Ma proprio perché così disarmante, essa è preludio alla rinascita, se lo vogliamo! L’oliva va spremuta interamente, fino a dissolvere la sua polpa, perché ne sgorghi il prezioso succo. Nel giardino degli Ulivi Gesù si lascia appunto spremere per estrarre da sé l’olio che da quel giardino ci riconduce al giardino di Eden. E tra quelle fronde, il male si fa a Lui talmente prossimo da toccarlo con un bacio. Il bacio: intimità stupenda dei corpi e delle anime, contagio d’amore che lì tenta di farsi contagio di morte. Eppure, in quel Male, opera segretamente il Bene, verso un destino più grande e necessario, un destino di salvezza. Ma solo quell’intimità ha reso efficace il gesto. Nel male guardato faccia a faccia che ci alita fin sulle labbra, si nasconde l’ombra delle cose – e la nostra ombra – che va ricondotta alla giusta traiettoria. Al contrario noi poniamo distanze, costruiamo delle immaginarie “riserve” del male da poter guardare a distanza di sicurezza. E così facendo, ci precludiamo anche ogni possibile azzardo del Bene. «Dietro ogni avvenimento tragico dell’esterno, non c’è forse un senso ontologico da scoprire, non per giustificare il tragico ma per portarlo, dato che c’è, lontano dalla sua carica di morte, nel flusso amoroso della vita?», magistralmente sottolinea Annick de Souzenelle. Il male è davvero addosso a noi, ci avvinghia da ogni lato; è in ogni struttura e relazione, in ogni consuetudine e giuntura di questa marcescente società, e tenta di rubare le nostre labbra ad un bacio.
Alla separazione dobbiamo allora reagire con l’intimità. Quando entriamo in un museo ad ammirare i capolavori del passato, non possiamo toccarli, anzi spesso dobbiamo mantenerci ad una certa distanza; per preservarli, per non arrecar loro alcun danno. Vi è però una distanza che preserva noi e ci mantiene al sicuro: il Tempo. Molti decenni, più spesso secoli, separano noi da quelle opere di genio; una distanza virtuale, ma la cui forza, in verità, è sì grande perché ne siamo totalmente inconsapevoli. Se infatti quelle tele, quelle pietre scolpite, fossero al contrario opera di un artista dei nostri giorni, di un uomo che cammina le nostre stesse strade, che respira lo stesso cielo, allora esse agirebbero come una lama che ci trapassa da parte a parte, strappandoci la vita, o meglio quell’ombra che osiamo chiamare vita. L’occhio del genio, la sua mano decisa, avrebbero sperimentato quello che noi invece avevamo coperto con un panno scuro e pesante; l’orrore che si fa messaggero di meraviglia, mentre noi nuotavamo nella calma “normalità”. Perché l’impeto salvifico del Bene e del Bello sgorga solo dall’abbraccio con la realtà tutta, anche se questa è ormai un corpo infetto e moribondo. Non è più dunque l’ora di ritrarsi impauriti nelle sicure stanze, ma di spalancare gli occhi e vedere la tragedia che si va consumando e si accosta a noi avida di un bacio; abbandoniamoci a questa intimità, fiduciosi, poiché quello che appare come un bacio che uccide, può divenire un soffio di vita per chi non teme di sostare nei sepolcri di una morte passeggera.