Per Norberto Bobbio, il sopravvalutato “papa laico” di una lunga- ma infeconda- stagione della nostra cultura, la modernità è l’età dei diritti. Ad inaugurarla sarebbe stata una vera e propria rivoluzione degli animi compiuta dal “momento in cui la politica e la società vengono osservate dal punto di vista degli individui – dei loro bisogni, interessi, desideri- superando la concezione organicistica tipica del mondo antico e medievale.” (V. Pazé, Diritti).
La descrizione di Bobbio è corretta, ma il suo apporto culturale – al di là del potere accademico ed editoriale che esercitò- si è limitato in fondo a introdurre in Italia il pensiero di Hans Kelsen, il massimo banditore del diritto positivo, o normativismo giuridico, l’indirizzo metodologico che riduce l’intero diritto alla norma. Per Kelsen è conforme a diritto tutto ciò che è “legale”, ossia è inserito nei codici giuridici in un certo momento storico. Dunque, al diritto è sottratta ogni intenzione o precauzione morale e ancor più è rimosso l’ancoraggio a principi generali anteriori al presente, ai diritti e alle leggi che altre tradizioni culturali definiscono naturali.
Siamo debitori a Ulpiano, grande giurista romano, della celebre definizione “ius naturale est quod natura omnia animalia docuit, ossia è diritto naturale è quello che la stessa natura insegna a tutti gli esseri viventi. E’ l’impostazione bimillenaria della nostra civiltà, scavalcata dal “dirittismo” soggettivista che oltrepassa lo stesso positivismo giuridico.
Kelsen elaborò una dottrina “pura” del diritto, liberata cioè da ogni commistione con nozioni morali, politiche o sociologiche; la scienza del diritto ha un compito descrittivo, e non deve formulare giudizi di valore dedotti dall’esistenza di norme “naturali”. Il diritto è quindi costituito esclusivamente dalle norme “positive” vigenti dell’ordinamento giuridico, qualsiasi precetto esse contengano. Unica condizione della legalità- che sostituisce definitivamente la legittimità, ovvero la conformità al giusto e al bene- è che le norme siano promulgate attraverso le procedure in vigore, di cui le maggioranze parlamentari espresse di volta in volta dal metodo rappresentativo sono l’espressione. Il diritto positivo “puro” incorpora, trasformandolo in norma, il frutto del clima civile dominante.
In quella dimensione concettuale diritto e diritti avvicinano i loro significati sino a sovrapporsi. I diritti, infatti, non sarebbero tali se non esistesse un sistema di obblighi definiti per legge- il diritto codificato- che ne rende possibile l’esercizio e punisce la loro negazione o inosservanza. Perfino le costituzioni, raccolte di principi generali che si fanno fondamento con pretese di durata teoricamente illimitata, diventano semplici manifestazioni dello spirito del tempo. E il nostro è indubbiamente l’età dei diritti. Un successo se costituiscono un avanzamento di responsabilità, senso civico e morale, non se innalzano il presente e l’immediato, cioè le idee dominanti, a unico criterio di legalità, la provvisoria verità.
Innanzitutto in quanto le idee dominanti sono sempre le idee delle classi dominanti (A. Gramsci) e il giusto (identificato con ciò che è legale) diventa l’utile del più forte (l’argomento di Trasimaco nella Repubblica di Platone). Poi perché la tendenza a porre sul trono il presente, ossia ad assumere la modernità (che significa “al modo odierno”, talché ogni tempo è moderno a se stesso) come bussola, taglia ogni legame con l’eredità delle generazioni precedenti. Un legato che, se per un verso può essere un’ipoteca sul futuro, resta comunque un modello e una pietra di paragone per ogni popolazione ed epoca, necessariamente figlia delle precedenti.
Tuttavia oggi vige la cultura della cancellazione, inaugurata dalla tabula rasa della rivoluzione francese. Thomas Paine (1739-1809), che prese parte alla rivoluzione americana e poi alla francese, autore di Diritti dell’uomo, fu chiaro nell’affermare che ogni generazione deve essere libera di darsi le norme che preferisce, senza alcun riguardo per il passato. “La presunzione di governare dalla tomba è la più ridicola e oltraggiosa delle tirannidi”, scrisse, cancellando in una frase la storia intera. Questo è ciò che accade adesso in Occidente, travolto dalla smania di novità, indicata invariabilmente come bella e progressiva, negatrice di ogni validità a principi, idee, modi di essere ereditati. L’età dei diritti- pur con la carica positiva di liberazione di energie – diventa la sua scimmia, il “dirittismo” soggettivista in nome del quale ogni pulsione, desiderio, bizzarria, moda, tic individuale, viene proclamato diritto, meritevole di tutela, imposto con la forza coattiva della legge “positiva” sempre più repressiva di ogni altro sistema di principi, norme e valori.
Il soggettivismo dell’Occidente diventa fase terminale di civiltà per la pretesa assolutistica di autodeterminazione individuale senza limiti, assunta non soltanto come unica verità, scopo dell’esistenza, ma come “diritto” universale onnicomprensivo che la legge ha l’obbligo di promuovere, garantire, offrire possibilmente in forma gratuita. L’autodeterminazione, tuttavia, è un concetto filosofico e giuridico che, portato alle estreme conseguenze, diventa il fattore che mina e dissolve l’ordine giuridico, la comunità politica e la stessa natura umana.
L’epoca che viviamo, infatti, tende a riconoscere qualsiasi pretesa come diritto soggettivo, considera legittimo il perseguimento di ogni fine, appetito, pulsione, voglia, istinto, aspirazione. Senza che nessuno risponda delle conseguenze di atti e modi di vita. Tale illimitata autonomia della volontà, inevitabilmente, finisce per cristallizzarsi nel principio che le persone possono darsi come regola la soddisfazione di ogni desiderio senza nessuna valutazione dell’impatto sociale, dei rischi, dell’evidente dissolvimento dei legami comunitari. Si finisce nell’impossibilità di fornire qualsiasi norma condivisa diversa dall’assenza di regole e dal “diritto” di fare, essere, diventare ciò che si vuole, con riserva di revocabilità immediata, di cui il corpo sociale deve semplicemente prendere atto.
La sovranità dei desideri tende a trasformare tutto in provvisorio e a mercificare cose e persona. La vita diventa disponibile prima della nascita (aborto diritto universale e non opzione tra le altre) – durante- (ogni condotta è ammessa e lecita, sino al progressivo sdoganamento della pedofilia), alla fine (darsi la “buona” morte come atto individuale di volontà a cui il potere pubblico deve fornire mezzi e assistenza) e dopo, cancellando la dignità del corpo defunto, ridotto perfino a rifiuto da compostaggio.
Nel considerare noi stessi come soggetti con il potere assoluto di promulgare norme che rendono leciti (anzi “diritti”) i nostri desideri, diventiamo proprietari e signori di quelle norme, la cui esistenza dipende dalla nostra volontà. Le nostre pretese diventano una condizione per l’esistenza del diritto, che non riflette più un ordine dell’essere, un giudizio della ragione pratica sulla natura degli atti umani.
In una fase precedente di questa corruzione filosofica e giuridica, fu la volontà dello Stato a stabilire (spesso in modo capriccioso) ciò che poteva essere considerato diritto e ciò che non poteva esserlo. Ma, rispetto a quel difetto iniziale, il nostro tempo ne consacra uno più grande: legislatore non è più uno Stato o un ‘istituzione collettiva, ma l’individuo, della cui volontà sovrana lo Stato diventa il garante (e l’ufficiale pagatore). L’individuo deve sempre affermare la sua volontà sovrana, salvo pochissimi vaghi limiti la cui assenza renderebbe impossibile la coesistenza sociale. Coesistenza e niente più, o compresenza nel tempo e nello spazio, giacché dove le volontà soggettive sono sovrane non si può parlare di convivenza, forse neppure di società, tanto meno di comunità. Al potere pubblico resta l’obbligo, ove la volontà dell’individuo non fosse pienamente realizzata, di rimuovere gli ostacoli per tradurla in realtà.
In questo modo il diritto cessa di essere lo strumento per determinare la giustizia, e diventa il mezzo che permette a ciascuno di realizzare i propri progetti (anche se del tutto chimerici) e qualunque aspirazione, non importa se legittima, pazza o insensata.
Questa autodeterminazione diventata dirittismo finisce per trasformare il Diritto- da non scrivere con la maiuscola, poiché ha cessato di essere “uno” per moltiplicarsi al plurale secondo i desideri e le aspirazioni- in un susseguirsi proteiforme di norme “positive” (ovvero codificate), senza ancoraggio nella realtà delle cose. Le pretese degli atomi umani autodeterminati saranno infinitamente mutevoli, sempre cangianti nel mercato delle voglie, continuamente all’inseguimento di nuovi obiettivi che non si arresteranno davanti allo “scandalo” rappresentato dalla natura e dai suoi limiti per i novelli Prometeo intenti a rettificarla, capovolgerla, distruggerla se si oppone a desideri e ghiribizzi.
L’autodeterminazione, lungi dal liberarci, rende la nostra esistenza incerta e precaria, poiché le leggi sono soggette alla signoria di ciascun individuo. L’ordinamento giuridico viene costruito su decisioni puramente volontaristiche; ma, poiché queste cambiano continuamente, le norme approvate secondo una decisione contingente (una maggioranza parlamentare momentanea, un referendum o altro, sempre teleguidati dallo “spirito dei tempi”) diventano inaccettabili il giorno dopo. Perché dovrebbero impedire l’esercizio di successive autodeterminazioni? Questo già teorizzava Paine, questo realizza l’ansia di cancellazione dei “risvegliati” (woke). Perché le norme dovrebbero avanzare pretese di durata o addirittura di fondamento, come le costituzioni?
Perché dovrebbero essere soggetti al mandato delle leggi coloro che non le hanno votate perché privi di età legale o perché non erano ancora nati? E perché dovrebbero essere accettate da coloro che, una volta votato a favore, hanno cambiato idea? Poiché la missione delle leggi diventa assecondare la volontà individuale, la pretesa di generalità diventa inaccettabile, vere e proprie gabbie che reprimono o ostacolano la concretizzazione indiscriminata di desideri/diritti sempre nuovi.
L’autodeterminazione è per natura proteiforme, mutevole, volubile, riluttante a prendere impegni duraturi. I contratti tendono ad essere di breve durata; i matrimoni si sciolgono sempre più in fretta; nessun impegno “morale” mantiene valore. Diventano fluide le identità sessuali e i relativi appetiti; alla fine, si sciolgono tutti i legami umani, compreso il vincolo di ciascuno con la propria natura biologica, considerata un costrutto sociale trasformabile a piacimento, da plasmare ed eventualmente riprendere.
L’autodeterminazione (in realtà etero determinazione da parte di un potere ipnotico e suadente) cambia nome e diventa dirittismo. Prima corrompe, poi sgretola la società, infine sfocia nell’anarchia e nel nichilismo giuridico, specchio del nichilismo sociale. E’ la negazione di fondamenti bimillenari: da Celso, per il quale il diritto è l’arte del buono e del giusto, a Ulpiano, il cui suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo, si trasforma nel riconoscere a ognuno il suo capriccio quotidiano e revocabile. Il dirittismo è la corruzione dello stesso positivismo giuridico. Probabilmente farebbe inorridire Kelsen e Norberto Bobbio, ma è figlio loro.
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