L’equidistanza che non c’è

 

L’equidistanza che non c’è

Neanche a farlo apposta, ogni volta che si apre una grave crisi internazionale riguardante gli Stati Uniti d’America e un regime politico non allineato (come la Russia, la Cina, il Venezuela, l’Iran…), nel dibattito politico che ferve sui media e sulle reti sociali, risaltano le posizioni di coloro che si piccano di assumere un atteggiamento equidistante.

Le ragioni possono essere apertamente (e anacronisticamente) ideologiche, come i neofascisti fautori di una «terza posizione» tra i due blocchi o i neo-trotzkisti che ciarlano di «conflitto inter-imperialista». Sempre più spesso però, specialmente nell’area sovranista, ci si fa scudo di una posizione apparentemente non-ideologica, ma dichiaratamente «realista». In realtà, abbiamo visto come la «morte delle ideologie» e la «fine delle grandi narrazioni» abbiano significato piuttosto il trionfo incontrastato della narrazione neoliberale, con la sua spiccata tendenza alla naturalizzazione, a presentarsi cioè non già come un’ideologia politica tra le altre, ma come un dato naturale, un sapere neutro, custodito da tecnici e competenti.

Questo “realismo”, però, è solo presunto, tanto nella teoria quanto nella pratica. Innanzitutto, è erroneo ridurre il realismo a un mero opportunismo cinico, in omaggio alla tradizione italiota del «Franza o Spagna» o al classico qualunquista «I politici sono tutti uguali». Se guardiamo ai grandi teorici del realismo politico nel secolo scorso, come Lenin e Schmitt, vediamo come l’approccio realista e pragmatico alla politica nazionale e internazionale non fosse affatto disgiunto da una visione del mondo ideologica e radicale. Per entrambi, alla base della politica, vi era la dicotomia tra amico e nemico. Anche lo stesso Machiavelli, il realista par excellence, non abbandona mai la sua visione ideale (e, ai tempi, quasi utopica) di repubblicano, fautore di un’unione dei principati italiani al fine di cacciare gli invasori stranieri.

Sul piano pratico, invece, i nostri “realisti” sembrano difettare di un’analisi realistica della situazione e dei rapporti di forza, in particolare per quanto riguarda i principali ostacoli e limiti alla sovranità italiana. Sembrano ignorare che nell’arena internazionale la potenza degli Stati Uniti è tuttora ineguagliata. Insistono con i loro distinguo, mettendo sullo stesso piano degli USA non solo grandi potenze come Cina e Russia, ma perfino una potenza regionale come l’Iran, come se qualche migliaio di pasdaran in Siria e Iraq (a soccorso dei propri alleati) fossero lontanamente paragonabile a centinaia di migliaia di militari statunitensi schierati in decine di Paesi in tutto il mondo!

Gli USA contano ancora per oltre un terzo della spesa militare globale (per tacere dei Paesi NATO e di altri alleati), e schierano 11 superportaerei e 9 navi d’assalto anfibie, con cui proiettare ovunque la propria forza militare. Cina e Russia hanno rispettivamente 2 e 1 portaerei, inferiori per stazza e tecnologia, e la loro presenza militare all’estero è estremamente limitata, a parte la seconda, che resta comunque confinata perlopiù ai Paesi adiacenti.

Sul piano economico, la Russia resta una tigre di carta, fortemente dipendente dalle esportazioni di idrocarburi, con un PIL inferiore a quello del Canada. La Cina è invece ormai la seconda potenza economica mondiale, data anche la sua enorme popolazione, ma la sua proiezione economica in termini d’investimenti è molto minore di quanto non si creda comunemente: sesta per flussi in uscita e undicesima come stock (2017). In più, recentemente, gli investimenti all’estero sono in calo, a causa della volontà politica di rafforzare il mercato interno e il megaprogetto della BRI. Un po’ poco per parlare dell’«imperialismo economico cinese» come di una minaccia globale, visto che anche persino in Africa (tanto citata al riguardo) è quinta per investimenti – dopo Francia, Paesi Bassi, Stati Uniti, Regno Unito.

Spostiamoci però sull’Italia, e facciamoci due domande realistiche: sono per caso russe le basi militari che occupano il nostro Paese dal 1943? O non sono forse gli Stati Uniti, ad aver storicamente destabilizzato il nostro Paese con la strategia della tensione e ad averci negli ultimi anni imposto di sanzionare alcuni nostri importanti partner commerciali? La nostra economia è davvero ridotta in grave crisi a causa dei laboratori clandestini cinesi a Prato o degli operai di Shenzhen (che ormai guadagnano più di albanesi e romeni), o non sono forse i parametri di austerità imposti dalla UE – e cioè da Francia e Germania, gli stessi che ci hanno praticamente estromesso dal Mediterraneo e vorrebbero ormai dettarci direttamente le leggi finanziarie?

La realtà è questa, cari realisti, ed è tale da non lasciare spazio ad alcuna presunta equidistanza. Sarebbe una posizione tanto realista, quanto considerare ugualmente criminali un barista, che non fa lo scontrino, e il mafioso che gli brucia il locale perché non ha pagato il pizzo. Né vale la pena di adattarsi a fare il tirapiedi del suddetto mafioso: gli USA non hanno mai mostrato grande generosità verso i propri satelliti.

Certo, la prassi da seguire deve essere realista: solo un illuso potrebbe pensare a un governo italiano dichiaratamente antiamericano, ma al tempo stesso occorre tenere bene a mente quale sia il Nemico principale, in termini di politica internazionale. Occorre dunque agire fattualmente per emanciparsi, sia pure con la prudenza e l’opportunità del caso, e approfittando delle dinamiche in corso, dalla sempre più ingombrante occupazione statunitense, anziché continuare ad esercitare la lingua a vellicare, meglio di ogni altro servo, l’ampolla rettale del Padrone a stelle e strisce.

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