L’eterno ritorno e quei quattro stronzi dell’autostrada
È per l’eterno ritorno dell’uguale che i capponi di Renzo, essendosi liberati della sua presa – trascorsi quattrocento anni – si sono materializzati sull’autostrada sotto forma di due opposte fazioni di tifosi: tutto questo mentre appaiono sempre più manifeste le avvisaglie di una crisi sesquipedale – di valori, di idee, di certezze – che non risparmia nessuno e che annuncia, con un rimbombo grigio e rotondo, come di tuoni lontani, l’approssimarsi della tempesta.
Il ‘600, una volta terminato il suo giro – che è quello di certe comete che vanno e vengono mettendoci dei millenni, ma che qui, per via dei ricorsi vichiani carrozzati Nietsche, impiegano al massimo solo qualche secolo, per adattarsi ai ritmi assai più sbrigativi del genere umano – si è riproposto con tutto il suo carico di sventure. Una società, spappolata e segnata da fossi profondi, si offriva, consapevole della propria debolezza, al corsetto di gesso dell’assolutismo: il brodo di coltura nel quale si sarebbero formate, nel secolo successivo, le ossa e i visceri dello Stato. Qui, ora, invece, avviene il processo inverso, dello Stato che si sfalda perdendo continuamente dei pezzi, e di una società che, stregata dagli illusionisti del Pensiero Unico, fa harakiri disgregandosi in una sequela senza fine di antagonismi speciosi: il fragore e il fischio lacerante di due treni che s’incrociano sui binari appaiati della Storia, la figura e il suo doppio capovolto nelle carte Modiano.
Gli inizi del ‘600, furono illuminati dal rogo di Giordano Bruno che si era ribellato al Pensiero Unico, ma contribuì a gettare su di essi una luce, pleonasticamente sinistra, anche l’ostinazione del cardinale Bellarmino nel non volersi accomodare dietro il cannocchiale di Galilei: lo stesso atteggiamento, in fondo, dei custodi della ‘vulgata’ storica che ad ogni nuovo libro sui trascorsi bui del Paese sprigionano scomuniche e ostruzionismo, e di tutti coloro i quali non s’avvedono dell’agonia nel vecchio continente degli Stati sovrani, e del trasferimento del loro potere ad una ‘cupola’ tecnocratica, impregnata di cultura mafiosa, che tratta i cittadini come cavie da laboratorio, espropriandoli della loro identità – ciò che sono – per poterli più facilmente depredare di ciò che hanno, a cominciare dai beni essenziali, come la salute e la casa.
La guerra dei Trent’anni – l’equivalente di una guerra mondiale, tenuto conto della marginalità politica e geografica di tutte le altre contrade della Terra – divampò in Europa tra i partigiani degli Asburgo e quelli dei Paesi protestanti che disponevano dell’appoggio della Francia. L’illusione ottica, provocata dalla contrazione delle distanze, preclude alla maggior parte delle persone la possibilità di cogliere le analogie tra quel conflitto e lo scontro in atto tra USA e Russia che si svolge sul territorio dell’Ucraina: non solo l’urto tra due potenze egemoniche, di cui una in lenta ripresa dopo il tuffo carpiato all’indietro del 1991, ma tra due ideologie rivali, come potevano esserlo quelle professate rispettivamente dai corifei della Riforma e dai seguaci della Controriforma, e tra due sistemi economici, di cui uno quello dell’Anglosfera e del Dollaro, sembra aver perso mordente a favore del BRICS, che è sulla buona strada per distaccarsene.
Nel combinarsi col fanatismo religioso, i divergenti interessi strategici fecero dilatare la guerra dei Trent’anni conferendole un aspetto puntiforme, di tensioni che prorompevano come geyser a grande distanza di chilometri e di tempo da dove si erano appena allentate, a manca mentre si affievolivano a dritta: niente di diverso dai fuochi intermittenti che illuminano il Medio Oriente, il Mar Cinese Orientale, i distretti del mondo che vantano un surplus di energia, come lo scatolone africano, e che rischiano di diventare un catastrofico tutt’uno con l’Ucraina.
Ma la lista delle analogie non si ferma qui, dal momento che, dopo un lungo viaggio a bordo della macchina del tempo, si sono materializzati qui certi uccellacci del malaugurio – una specie di maschera appuntita al posto del becco – per portarci la pandemia. Non succedeva da un sacco di tempo. I morti di peste scaraventati giù dalle finestre, a Milano, e ammucchiati su di un carretto, si sono ripresentati a Bergamo. Strade deserte ovunque, e un ragazzo, solo lui, a due passi dall’immensità del mare, braccato dall’elicottero. Tachipirina e vigile attesa. Intanto il Conte zio, travestitosi da ministro della Salute, senza aver mai fatto neppure un mezzo esame di Medicina, e i suoi Bravi, facevano a gara a chi abbracciasse più forte, e più stretto, i cinesi. Allora, nel ‘600, eressero a sproposito la colonna infame, ma, altrettanto a sproposito, qui lorsignori hanno soprasseduto.
L’economia, con tutta la gente barricata in casa, ne ha pesantemente risentito, ma la girandola degli effetti, come quasi sempre succede nel corso delle turbolenze finanziarie, ha contratto il segno meno per un’infinità di persone che hanno perso il lavoro o hanno dovuto inchiavardare l’impresa, facendo aumentare a dismisura la lunghezza delle file davanti alla Caritas, mentre hanno avuto un’impennata vertiginosa i profitti dell’industria farmaceutica controllata dall’Alta Banca.
Allora, la congiuntura emergenziale, provocata dalla sovrapposizione della peste e delle carestie, legittimò l’avvento e il rafforzamento delle monarchie assolute. Quella verificatasi da noi ha comportato l’assunzione da parte dell’Esecutivo di una serie di misure, delle quali sono stati più volte disapprovati il carattere illiberale e la palese incompatibilità col dettato costituzionale, ma forse ciò che più conta – indipendentemente da quale può essere stata l’intenzione del potere politico nell’adottarle – è il fatto che le restrizioni, accettate in un periodo caratterizzato da enormi difficoltà, anche quando apparivano eccessive e gratuite, potrebbero aver preparato – in conformità col principio della ‘rana bollita’ – la gente a subirle anche in condizioni normali, e a dare implicitamente il proprio assenso all’involuzione in senso autoritario delle istituzioni: laddove lo Stato, indebolito e svuotato dalle mafie finanziarie, è solo lo strumento di cui si avvalgono i poteri forti a livello internazionale per declassare i cittadini, con una piccola ‘card’ impiantata nel braccio, a meri consumatori (preferibilmente di insetti) e a costringerli, come tanti piccoli automi, a dire sempre di sì, le continue recidive di un’eco letale.
Ricordo il dolce grugnito di Ungaretti, allorché, più imperioso del leone della ‘Goldwyn Mayer’, si affacciava, scuotendo il capoccione canuto dal piccolo schermo per recitare dei versi. Ora c’è Mara Venier – vuoi mettere? – che fa salotto, la proiezione ortogonale del lavatoio, intorno al quale, per le troppe chiacchiere, tutte le vergini diventano grandi puttane.
Nelle rare volte in cui espatriavo mi portavo dietro, a mo’ di distintivo, l’orgoglio di essere connazionale di Rubbia, di Zichichi, della Montalcini (la cui notorietà, oggi, è azzerata dall’indecente lumescenza di Roberto Burioni), nonché di narratori di pregio come Italo Calvino, Sciascia e Moravia, nonché di pittori come Guttuso e De Chirico, o scultori come Pomodoro, Attardi e Manzù: lo sfrigolio della fiamma che divora una vecchia foto, e un tramonto, di un colore senza colore, che pare l’alba di un giorno cattivo, il tipico paesaggio di un’inesorabile decadenza.
Nell’Italia del ‘600, la cappa del potere stesa su di essa dalla nobiltà spagnolesca devota agli Asburgo, che non sapeva e non voleva governare, faceva meno paura del rischio di essere percepiti come titolari di una sensibilità estranea al pacchetto ‘tutto compreso’ della Controriforma. Sicché, per cercare di scongiurarlo, prevalse e vinse il partito di diffamare i ‘classici’ perché veicolavano delle verità imbarazzanti, e s’impose il culto della forma, che doveva essere – come nelle poesie di Giovanbattista Marino – del tutto indipendente dal contenuto quando non riuscisse a nascondersi a lui dietro una nuvola di cipria, di profumi, di nastrini di seta, di svenevoli inanità.
Se i Maneskin fossero, perciò, curiosi di sapere da dove provengono, sarebbero probabilmente contenti di scoprire di essere stati portati qui, dopo un viaggio di oltre quattro secoli, dalle rapide procellose dell’Eterno Ritorno. Proprio come quei quattro stronzi che si sono menati sull’autostrada.
Immagine: Pieter Brueghel il Vecchio, Danza di contadini, 1568 circa.