L’inefficienza della scuola italiana provoca disoccupati, carenze e decadenza

 

L’inefficienza della scuola italiana provoca disoccupati, carenze e decadenza

Nei giorni scorsi la casa editrice “La nave di Teseo” ha pubblicato un importante saggio di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (che nella vita sono coniugi) intitolato “Il danno scolastico” che ha come sottotitolo “la scuola progressista come macchina della disuguaglianza”. In questo libro essi dimostrano come la scuola italiana attuale abbia provocato un’istruzione abbassata e facilitata che ha impedito una selezione dei migliori a vantaggio delle classi agiate che possono contare sull’eredità familiare per quanto riguarda l’istruzione superiore di livello universitario e le possibilità occupazionali e reddituali. Il disastro che ha rovinato la scuola italiana è costituita da tre fasi, tutte negative: l’abolizione del latino nella scuola media, la liberalizzazione nell’accesso alle facoltà universitarie, la laurea “breve” introdotta dal fratello del segretario del partito comunica, Luigi Berlinguer. Gli autori di quel libro scrivono su di lui che “è stato l’esecutore decisivo della distruzione dell’università”.

Questo processo di distruzione progressiva dell’istruzione media e superiore, succube delle suggestioni egualitarie del sessantotto, ha prodotto in realtà l’aumento della divaricazione delle possibilità di riuscita sociale tra i figli delle classi elevate e quelli delle classi basse. La riforma fascista della “Carta della scuola” elaborata da Giuseppe Bottai aveva invece cercato di promuovere la crescita sociale dei figli dei ceti inferiori mediate gli istituti tecnici professionali che fornivano una preparazione completa, quasi di livello universitario, adatta per essere subito impiegata nel lavoro. Se si vanno a leggere i curriculum dei “capitani d’industria” degli anni sessanta che avevano realizzato grandi imprese industriali contribuendo a determinare il “miracolo economico” italiano del dopoguerra, si vedrà che essi si erano formati con quel tipo d’istruzione ideato dal fascismo avendo i diplomi di ragioniere, geometra, perito industriale, perito chimico: titoli che gli attribuivano conoscenze tecniche e capacità di lavoro pari, se non superiori dal lato esecutivo, a quelle dei laureati.

Tant’è che oggi si è creata in Italia una situazione simile a quella americana dove il potere è gestito dalle èlites urbane supereducate, e la “supereducazione” si ottiene solo frequentando le università ritenute elitarie quali la Bocconi a Milano, la LUISS a Roma, la Normale di Pisa: ma non basta, occorrono poi appositi “master” di specializzazione nei “colleges” inglesi o americani. Però per far questo bisogna avere alle spalle famiglie benestanti che possano permettersi per molti anni le spese di mantenimento a questo tipo di scuole. Vi è poi un’altra conseguenza negativa oltre a questa disparità di condizioni perché spesso i giovani così formati abbandonano l’Italia per trovare occupazione all’estero: nell’ultimo decennio sono stati ben 250.000.

Si tratta di una perdita netta di competenze che si sta manifestando in modo rilevante in questa fase che si sta avviando alla ripartenza e trasformazione dell’economia dopo la crisi provocata dalla pandemia perché manca il personale qualificato che possa attuare i progetti finanziati (a prestito) dall’Unione Europea con il Piano PNRR. Le previsioni delle associazioni industriali affermano che mancano 740.000 addetti: le categorie deficitarie sono quelle dell’ingegneria, degli specialisti d’impianti elettrici e meccanici, di operai specializzati e tante altre professioni. Ossia, tutte quelle che un tempo uscivano dalla scuola già pronti per l’impiego. Ma anche i giovani che cercano lavoro non possono svolgerli perché hanno insufficienti preparazioni: il 13,1% dei ragazzi tra 18 e 24 anni ha interrotto prematuramente gli studi e solo il 37% s’iscrive a percorsi d’istruzione e formazione post-scuola secondaria: questo fatto è un ostacolo all’occupazione, perché si cerca personale specializzato. In totale in Italia attualmente solo il 20% ha una laurea, e il 60% un diploma.

Ci sono tanti fattori che hanno portato a questo quadro desolante. Il primo, e fondamentale, è stata la svalutazione e l’irrisione della scuola, verso la quale non si ha più rispetto e impegno per considerarla come base per il proprio futuro, effetto dell’anarchismo post-sessantottino; l’altro, in parte derivante dal primo, è stato il progressivo allentamento dei criteri di selezione degli insegnanti insieme a modifiche dei programmi e degli esami per renderli più facili possibili; il terzo, è stata la concezione consumistica ed edonistica inculcata nei giovani che in maggioranza non hanno più progetti per il loro futuro, cercano di acquisire subito tutti gli oggetti offerti dal mercato consumeristico, e per far ciò si accontentano di lavori servili (come camerieri o “riders”) che diano un guadagno immediato anche se modesto piuttosto che impararsi un mestiere o una professione; il quarto, è la condizione dei loro genitori che hanno perso – con l’entrata in vigore dell’euro e con la stasi nelle retribuzioni (uno studio del CENSIS ha accertato che in Italia le retribuzioni medie sono diminuite negli ultimi vent’anni, proprio in coincidenza con la moneta unica e i limiti alla spesa pubblica) – la possibilità del mantenimento agli studi.

Al di sopra di tutto, c’è un’assoluta indifferenza dei governi che si sono succeduti in Italia per l’istruzione, volendo assecondare di volta in volta le richieste demagogiche contro la preparazione approfondita degli studi e la selezione.

La sintesi di tutto ciò comporta un ulteriore arretramento dell’Italia che non solo subisce le perdite delle liberalizzazioni e delle delocalizzazioni delle industrie ma anche quella di ciò che è sempre stato il suo capitale più prezioso, quello umano dell’inventiva, dell’impegno, della capacità tecnica. Si potrebbe anche pensare che la distruzione della scuola, come la chiama Ricolfi, sia stato un altro strumento per declassare l’Italia utilizzato dalle dirigenti classi politiche e culturali antinazionali e chiuse nella loro solitaria egemonia elitaria.

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