Alcuni anni fa partecipammo a un’assemblea di dipendenti di un’agenzia fiscale indetta dai sindacati per stabilire il criterio di divisione delle somme dovute come premio annuale di prestazione, collegato al merito individuale. Le cifre in ballo non erano elevate, ma in assenza della quattordicesima mensilità, facevano gola. La discussione fu rovente, segno che la controparte aveva colto il suo primo obiettivo: dividere il fronte opposto con la semplice mossa di sottrarre allo stipendio “normale” una parte della retribuzione, collegandola a criteri da determinare. Chi scrive aveva un doppio dilemma, giacché, oltre a essere destinatario della valutazione legata al premio da riscuotere, avrebbe dovuto esprimere, da responsabile d’ufficio, un giudizio con ricadute economiche sui colleghi del proprio servizio. La convinzione che esprimemmo con grande sofferenza fu che la forma di ripartizione meno ingiusta era “a pioggia”, ovvero uguale per tutti a parità di qualifica. Restiamo purtroppo della stessa opinione, non certo per egalitarismo, ma per radicale sfiducia negli obiettivi delle oligarchie direttive.
Dopo la lunga ubriacatura collettivista dell’uguaglianza forzata che intossicò la nostra giovinezza, il metronomo si è improvvisamente spostato, in ossequio al trionfo liberale, sull’enfatizzazione del merito. Nessuno dei due principi regge alla prova dei fatti concreti. Marx non propugnò mai l’uguaglianza assoluta, anzi mutuò dagli Atti degli Apostoli la celebre espressione “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Il merito secondo i liberali si basa sulla glorificazione dei peggiori attacchi alla dignità delle persone, con le massime diseguaglianze economiche (le uniche care ai pretoriani del mercato misura di tutto) che vengono fatte passare per naturali. E’ una gigantesca giustificazione dell’ingiustizia, poiché in una società meritocratica nel senso oggi attribuito alla parola, non ottenere risultati diventa una colpa individuale. Sei tu che sei inadeguato, tu non sei capace di lottare, rispettare gli standard, competere. La meritocrazia vigente, non è altro che la capacità di adeguarsi al sistema dopo aver ricevuto un’istruzione strumentale a cui attenersi. Tutt’al più si tratta di un’abilità, non certo del “merito”, che è qualità intellettuale unità a preparazione, cultura, iniziativa.
Il principio negativo è l’ossessione di misurare, valutare, catalogare, tipica del nostro tempo e dell’ideologia dominante. Una dirigente del Forum della Meritocrazia, un organismo di cui non avvertivamo la mancanza, avverte che “misurare è sempre il punto di partenza migliore “. Questo è vero se si vuole conoscere la distanza tra due punti, il peso di qualcuno o il tasso di colesterolo. La retorica dell’oggettività dei criteri “scientifici” non funziona con le persone, a meno di selezionarle in base alla statura, al peso o al gruppo sanguigno. Non si può misurare il merito, che è una qualità, attribuendogli un punteggio, una scala di valore quantitativo. Quantità e qualità sono due insiemi indipendenti, irriducibili, come l’olio non si scioglie nell’acqua.
La verità è che tutto, da qualche decennio, deve essere misurabile in termini di performance. Si tratta di una falsa retorica dell’oggettività, autorappresentata come una modalità incontestabile in quanto rapporta ogni cosa al valore di scambio, ovvero al costo. Di qui il successo del modello dei quiz a risposta multipla in tempi ristretti, i punteggi assegnati ai più fantasiosi elementi dei curricula, l’eccessiva importanza di percorsi e competenze costruite appositamente per formare un certo tipo di candidato, quello che diventerà meritevole, quindi cooptato nei posti che contano.
Questo ci sembra il punto decisivo: il nuovo criterio meritocratico è in realtà assai antico. Sono meritevoli coloro che si adeguano più docilmente alla volontà del potere, alla logica dominante, al pensiero corrente. Per questo la scuola subordina il pensiero critico del sapere umanistico alla conoscenza tecnoscientifica, specializzata nel conoscere i meccanismi, ma incapace di verificare le ragioni, scoprire i risvolti, indagare i perché. Per lo stesso motivo è in atto nel mondo del lavoro una gigantesca sostituzione dei quadri più esperti con i più giovani. L’età, del resto, in un senso o nell’altro, non è un merito, ma una circostanza; Amintore Fanfani, la cui carriera fu lunghissima, sosteneva che “se uno è bischero, è bischero anche a vent’anni”.
La conseguenza è la sostituzione della giustizia con l’efficienza, nonché la generalizzazione del conformismo, divenuto più che mai un merito, esattamente come l’appartenenza, familiare, politica, sindacale, a gruppi di potere, clan interni. La partita è truccata all’origine, la selezione ha regole ingiuste, tanto da far considerare meno iniquo il principio di uguaglianza.
In tale ottica, la meritocrazia liberale è speculare al frusto egalitarismo, entrambi costruzioni ideologiche di opposti regni della quantità. Il comunismo di ieri e il liberismo di oggi restano fratelli le cui opposte polarità tendono a neutralizzarsi. La loro relazione ricorda un detto toscano: da Montelupo si vede la Capraia, Dio li fa e poi li appaia.
Dovrebbe essere invece ristabilita un’antica saggezza del diritto romano accolta dal cristianesimo, suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo. Un principio del diritto civile applicabile ad ogni ambito di vita. Gli uomini non sono uguali, è ingiusto trattarli o valutarli alla stessa maniera; il rispetto della dignità di ciascuno impone un giudizio personalizzato, caso per caso. Poiché il merito è una qualità, non può essere ridotto a grafici, tabelle, quiz a crocette, punteggi arbitrari il cui peso è stabilito a priori in base non a un ideal-tipo. Il merito è diventato la somma algebrica del valore d’uso e del valore di scambio degli esseri umani, secondo l’interesse della cupola tecnocratica.