Seconda stella a destra questo è il cammino; e poi dritto, fino al mattino. Poi la strada la trovi da te,
porta all’isola che non c’è. Così canta Edoardo Bennato. Oggi più che mai occorre il coraggio dell’utopia, unico realismo rimasto. Bisogna ribaltare la mentalità dominante, attaccare senza posa il tragico modello di società che ci impongono.
I problemi della nostra società spezzata sono mille, ma una sola è la bomba atomica: la fine biologica del popolo italiano, e con esso, degli altri popoli europei. Anche quest’anno, il periodico rapporto del’Istat sulla popolazione attesta con numeri raggelanti una devastazione demografica senza pari. Come sempre, il sistema mediatico ne ha parlato per un solo giorno, distrattamente.
Non siamo più nell’inverno demografico; siamo nel bel mezzo di una guerra. Lo ha spiegato con chiarezza, al di là della prudenza, l’istituto statistico. Il numero delle nascite non era tanto basso dai tempi della prima guerra mondiale, con i giovani uomini a morire a centinaia al giorno e svuotare campi, paesi, città. L’anno venturo sarà peggio. Il dato più spaventoso è il crollo del desiderio femminile di divenire madre. Il destino biologico naturale è visto come una disgrazia, un problema, una malattia a cui sottrarsi.
Tra mancate nascite, aborti e suicidi, è ozioso dibattere di qualunque altro argomento: o la nostra società pone in agenda al primo posto la sua sopravvivenza biologica, oppure è la fine, rapida, irreversibile, definitiva, della nostra gente.
Non vogliamo figli, dell’Italia non ci interessa il destino né i padri, superstiti testimoni del mondo di ieri, dell’Italia come è sempre stata. Tutto per paura del domani e orrore del buio di ieri, quando non c’eravamo, sembra impossibile, proprio noi, le prime generazioni davvero libere, emancipate, colte, uscite dalla superstizione e dall’ignoranza. I figli, poi, ci deprimono perché costringono alla responsabilità. Non vogliamo figli per il rischio di non poter frequentare locali di divertimento e non godere le vacanze.
Molti, in verità, i figli li vorrebbero, ma non si può, stando al senso comune odierno, per insicurezza sociale, mancanza della casa, pochi soldi. Se gli uomini avessero ragionato sempre così, la specie sarebbe estinta da secoli. I giovani sposi del dopoguerra vissero per anni in camere a pigione e, chissà come, ebbero figli, restarono insieme per la vita e salirono la scala sociale. Il matrimonio è ridicolizzato; arriva sempre più tardi e dura sempre meno. Prima bisogna completare gli studi, poi bisogna “realizzarsi”.
Difficile conciliare lavoro e famiglia e allora via tutto, nessun matrimonio, rapporti liquidi, sentimenti banditi, se occorre aborto senza problemi, basta bambini che piangono e, orrore, richiedono attenzione, responsabilità. Le morti già superano le nascite. Che cosa fa la politica? Nulla nella maggior parte dei casi, una parte si schiera apertamente per la morte della nostra gente, nemici aperti del popolo italiano.
La tendenza giovanile – tutti imitiamo i giovani o ci travestiamo per sembrare tali – è vivere gioiosamente e comodamente senza legami. Ha vinto un’ideologia pervasiva contraria all’uomo, al matrimonio e più ancora alla donna, aggredita nella sua condizione di madre non solo dal femminismo più radicale, ma dall’intero pensiero dominante dell’occidente terminale.
Il ripudio della maternità si fa maternofobia, un atteggiamento retrogrado che dovrebbe indignare gli adoratori del progresso. L’isola che non c’è è la necessaria reazione, etica, culturale, spirituale e anche politica da concretizzare in un programma con un unico punto: rilanciare il popolo italiano attraverso una politica favorevole alla vita. La domanda da porre, brutalmente, è la seguente: Volete essere un popolo, o vi basta la condizione di consumatori transumanti? Ha ancora senso per voi parlare questa lingua, amare questo territorio, trasmettere a qualcuno, rafforzata, la civiltà ricevuta o non ve ne importa nulla?
La risposta fa paura, inutile negarlo, ma la difficoltà dell’impresa non ci può far rinunciare.
Quella che proponiamo con disperata speranza è un’agenda politica che riconduca all’isola che non c’è (più) attraverso la difesa intransigente del nostro popolo a partire dal suo diritto di esistere. Contiene tutti i temi della nostra società malata: comunità o soggettivismo, globalismo o identità, appartenenza o schiavitù tecnologica, bellezza o uniformità, spazio pubblico o dimensione privata. Come tale, è inevitabilmente anti liberista, anti liberale e antiglobalista, allontana dal soffocante materialismo, recupera la dimensione del futuro.
Propugnare come tema centrale della battaglia politica e culturale la sopravvivenza biologica e culturale del nostro popolo è monotematico solo in apparenza, giacché, prima di tutto, bisogna essere vivi. Primum vivere, deinde filosofari, dicevano i saggi del passato oscuro.
Digeriamo quotidianamente, specie i giovani derubati del pensiero critico, tonnellate di immagini ludico libidinali di consumo il cui filo comune è l’insostituibilità del sistema di potere. Miliardi di schiavi felici, plaudenti, animali d’allevamento a taglia unica soddisfatti dopo il pasto. Un granello di sabbia può mettere in crisi l’ingranaggio. L’ostacolo può essere la domanda di identità
La resistenza culturale, biologica, etica è il granello di sabbia che gettiamo contro il nuovo leviatano. Figli di qualcuno e di qualcosa, eredi decisi a non disperdere il patrimonio accumulato. Il viaggio verso l’isola che non c’è (ancora) è un cammino da intraprendere in pochi, ma troveremo compagni lungo la via. C’è bisogno di ideali, progetti, imprese, la lucida follia che non si arrende al deserto che avanza e raggiunge l’isola perché ne conosce l’esistenza.