La domenica si stropiccia gli occhi nelle piazze e nei viali deserti; sopra i tetti che faticano a lasciare il respiro umido della notte. Stende le proprie vesti lungo le strade e i campi pronti a mostrare i loro dolci colori. La natura accoglie il giorno con i suoi tempi e suoni. Dalle finestre si riesce a udire il vociare di uccelli, o lo svelto planare di ali che domina i palazzi e le case; i sussulti del mare o lo sventolare degli alberi in festa. Ma anche i silenzi, le pause profonde, le attese. E poi anche il fantasma dei passi conservati nelle suole a riposo, delle voci e delle risa trattenute, del gracchiare dei motori trascinati da venti che forse verranno. Un meraviglioso groviglio di suoni e suggestioni contro la confusa e accalcante cappa di rumori che la nostra società ci ha sempre propinato. Non è la natura a voler umiliare o scacciare l’uomo, semmai, perfino negli stessi sconvolgimenti, è anche lei a invitarci a recuperare la nostra statura di uomini, senza più indugi. Si può finalmente ascoltare dentro e fuori dalle finestre, nell’aria che si è fatta più limpida e schietta, ma anche nella cella custodita sotto le nostre ossa e carni. Si può scendere nell’intimità luminosa e oscura che ha molte parole, ma una sola voce. Il momento è propizio, ma occorre domandarsi se ne siamo ancora capaci.
L’uomo si ferma, ma la vita no. I suoni che riempiono l’aria forse ci sorprendono, smascherano le nostre passate disattenzioni, e ci chiedono di sostare davanti a loro, con umiltà. E ancora più, le voci di chi condivide la nostra “reclusione”, dei nostri cari, di un padre, un figlio, del coniuge. Perché quelle voci diventino realmente familiari è necessario però muovere un passo indietro e fare spazio. Per una società edificata sull’ego che si getta davanti a sé aggredendo e silenziando tutto e tutti, questo è difficile e molto doloroso. Non basta sentire, bisogna imparare ad ascoltare. Ascoltare vuol dire farsi piccoli, diminuire, perché la verità che si annida nell’altro cresca e venga alla luce. Noi invece viviamo per dominare e domare la realtà, e quando lo facciamo con i nostri spuntati strumenti culturali non siamo meno brutali e colpevoli. La scienza e la cultura moderna non affinano lo sguardo e l’ascolto, ma rendono solo più ciechi e sordi. La verità spunta sempre come una vecchia moneta infilata in qualche tasca dimenticata. È solo la nostra superbia che non ce la fa trovare. E quanto pesa quella “intellettuale”!
L’ascolto domanda la preziosità del tempo, la concentrazione, lo spezzare le catene dei pregiudizi e delle convenzioni su chi ci sta davanti; è un atto di purificazione che prepara la comprensione, seppur nel riconoscere che l’altro è comunque un mistero più grande, come io stesso lo sono. E così, l’ascolto coltiva la parola pesata, poiché si è prima bagnato nell’umiltà del silenzio.
Il dolore si farà sentire, come una lama che scartavetra il legno ancora grezzo, ma il piano umano è solo preparazione a quello spirituale, ancora più scosceso e impervio. Nella cella interiore l’uomo deve discendere facendosi muto, nella piena apertura all’incontro con un Altro che non cessa mai di cercarlo e che – teniamolo bene a mente – ha parlato per primo. È un confrontarsi con la nera morte, perché solo la Mortificazione instrada verso la Vivificazione. Nel silenzio, bisogna spogliarsi di tutte le forme di questo mondo, per aprirsi poi alla pura immaginazione. L’audizione interiore è l’entusiasmo (en theòs) che fa il vuoto al riempimento del dio. Si attraversano le paludi della tristezza e dello sgomento per lasciarsi invadere da una nuova quiete.
Forse questo sarà per pochi, o pochissimi, ma chi siamo noi per dare un limite alla Provvidenza? In ogni caso, il numero seppur esiguo non deve punto spaventare. La ruota della storia si è mossa sempre per opera di un pugno di uomini che hanno abbracciato il sacrificio con occhi cristallini e profondi, e lo sarà ancor più nel domani che si prepara. Là dove anche un solo uomo contempla e vede, la città non cade, anche se appare misera e traballante. Come ricordava San Francesco, è per i contemplativi delle selve che si operano le conversioni. Sono loro a reggere il mondo, in barba a tutti quelli che vi si affannano sopra correndo di qua e di là senza sosta. In quel silenzio che si fa ascolto e infine visione, c’è molta più operosità che nelle nostre vite. Ma questo è un tempo di Grazia speciale, e ognuno è invitato a immergersi nella propria selva, a combattervi le fiere lungo il cammino, a soffrire la fame e la sete, per poi adagiarsi sotto una sconfinata notte «a riveder le stelle».