La civiltà del brutto

 

La civiltà del brutto

 “Si diviene simili a ciò che si pensa”, recita un passo della Maitri-upaniṣad, e lo stesso pensiero si ritrova in Platone e in Plotino: l’anima diventa simile a ciò che contempla, a ciò che guarda e ascolta, ed essendo la forma del corpo − secondo l’espressione della Scolastica – essa si manifesta e si riflette nelle sembianze corporee. Giorni fa, mentre scrutavamo i volti degli assassini di Willy Monteiro Duarte, riflettevamo su tale insegnamento. Perché quei volti, quei corpi, quelle pose e quelle espressioni sono in fondo l’immagine più fedele della nostra società. Ci rivelano che la nostra è l’unica civiltà (se così si può chiamare) a fondarsi sul brutto, su ciò che vi è di più volgare e abietto. Ci rivelano che è l’unica civiltà ad esaltare il narcisismo e l’esibizione del proprio ego nei suoi aspetti peggiori, quando al contrario tutte le civiltà tradizionali esortano a raggiungere non la libertà dell’io, ma la libertà dall’io. Ci rivelano cosa sia diventata  l’umanità, se tra un selfie e un happy hour  un branco di balordi – i quali peraltro, a giudicare dallo stile di vita che ostentavano, disponevano di ingenti mezzi economici – può arrivare a massacrare a calci e pugni un ragazzo esile e dal volto mite.

Eppure questi feroci assassini non sono sbucati all’improvviso da qualche angolo recondito del nostro mondo; non sono emersi da un universo parallelo a turbare il nostro quieto vivere: sono al contrario il prodotto della società degli influencer e dell’e-commerce, di quel life is now che campeggia nei cartelloni pubblicitari, di quella virtualità onnipervasiva che ha inglobato la realtà, fino a divenire più reale di ciò che imita. Sono il simbolo di ciò che diventa l’uomo quando imita non gli archetipi o i princìpi, ma gli aspetti inferiori della realtà, diffusi senza posa da quei centri di proiezione delle influenze psichiche negative che sono i media e i social network. Gli “archetipi” che oggi vengono proposti ai giovani non sono nient’altro che quelle forze inferiori e letteralmente infernali, forze che tutte le civiltà tradizionali sapevano neutralizzare e rendere inoffensive, relegandole nell’abisso conforme alla loro natura. Ma oggi che queste forze disgreganti vengono scatenate ovunque e in ogni istante, oggi che il contatto con le realtà spirituali è precluso alla maggioranza degli uomini, ecco che queste forze affiorano e vengono introiettate nelle menti (e di conseguenza nei corpi) di coloro che non fissano più lo sguardo sul cielo, ma sullo schermo dello smartphone e del televisore.

Certo, quei volti che nulla possiedono di umano e che non possono nemmeno definirsi bestiali − giacché gli animali sono innocenti e non tradiscono la loro natura − denunciano l’assenza di un’educazione, di una famiglia, di una comunità fondata su valori etici, e indubbiamente accertano le enormi responsabilità della politica, della scuola e del corpo sociale; ma tutto ciò è insufficiente e coglie solamente l’aspetto più esteriore della vicenda. Poiché le immagini che vediamo ogni giorno, le notizie che ascoltiamo o leggiamo agiscono profondamente, seppur in maniera inconscia, nella nostra mente, fino a condizionare i nostri  pensieri, i nostri sentimenti e le nostre azioni. Parlare incessantemente di cose brutte, ascoltare notizie negative, vedere immagini volgari, produce alla lunga una sorta di anestetizzazione del senso morale, fino al punto che stuprare o uccidere diviene simile a un gioco, in fondo non molto diverso dall’assistere ad una diretta Facebook o al mettere un like alla foto del vip di turno. E non c’è forse differenza – una differenza morale ed intellettuale, oltre che estetica − tra un’epoca che ha come ideale di bellezza il Partenone, e un’epoca che spaccia per arte le “opere” di Marina Abramović? Tra chi orienta la propria vita verso l’Alto e l’Eterno, e chi invece pone la propria realizzazione negli stati infraumani? Tutto quello che ci circonda è manifestato da noi, una sorta di riflesso della nostra coscienza, è vero, ma allo stesso tempo contribuisce a renderci ciò che siamo. Si potrebbe vivere nel mondo descritto da Omero, da Virgilio, da Dante, da Michelangelo; ma soltanto un popolo di demoni, o un’umanità giunta al grado estremo dell’abiezione, potrebbe vivere a suo agio nel mondo raccontato dai media e dall’industria pubblicitaria. “L’arte rappresenta un grado storico della coscienza spaziale”, diceva Carl Schmitt.

Ebbene ci si guardi intorno. Si guardino gli edifici che costellano le nostre città, le chiese costruite negli ultimi decenni, gli oggetti che consideriamo opere d’arte: se non siamo completamente abbrutiti dal (non) gusto imperante, e se le nostre facoltà critiche non sono state del tutto atrofizzate dalla propaganda incessante alla quale siamo sottoposti, saremo costretti a riconoscere che la nostra è la civiltà del brutto, nell’accezione più ampia del termine. E che il nostro mondo – agli occhi dei progressisti così civile e libero − in realtà si è emancipato non da ceppi e catene, ma da tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta, oltre che sacra ed intangibile. Un mondo − non ci stancheremo mai di ripeterlo − che ha rimosso Dio ed ogni principio di ordine superiore, e perciò si avvia inesorabilmente verso l’abisso. E se soltanto a fatica, e senza riuscire a trattenere un moto di disgusto, riusciamo a fissare lo sguardo sui volti di coloro che hanno massacrato Willy, è perché abbiamo paura di guardare dentro quel buco nero. Di guardare, in definitiva, quello che siamo diventati.

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