La forza gentile del salice: Faina Savenkova e la guerra in Donbass
Nel 1911 Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo, espresse in un breve testo quella che è forse la sua frase più famosa: Guerra, sola igiene del mondo (il testo è oggi reperibile in appendice nel volume Aristocrazia Operaia, a cura di Guido Andrea Pautasso, edito da Aspis Edizioni). Dietro questa frase, apparentemente spietata e gretta, si nascondeva in realtà il rifiuto della cultura e del ben pensiero borghese, che nella sua foga positivistica di ordinare il mondo in categorie precise e ben definite, inevitabilmente crea un’illusione di perfezione, opulenza e consumo finalizzata a idealizzare ed esaltare la perfezione delle strutture borghesi, presentate come la via da percorrere nel migliore, se non l’unico, dei mondi possibili.
Ma la guerra, la più inefficace delle misure diplomatiche, squarcia questo velo di fantasie e lava come una spugna la patina del perfetto comportamento borghese, facendo emergere con prepotenza il meglio e il peggio che l’essere umano può offrire. La portata di questa rivelazione è tale che immediatamente la macchina mediatica si attiva per coprire di ancora più illusioni questo avvenimento drammatico, sporco, animale e caotico, al fine di circoscriverlo in categorie ben precise e ordinate, che servono fondamentalmente a disumanizzare uomini, donne, vecchi e bambini, trasformandoli in sagome di cartone, marionette pronte a danzare al comando di “cattivi” che attaccano “i buoni”. Ma gli uomini non sono sagome di cartone; sono creature di sangue e carne, fatti di grandi e piccole emozioni, paure, speranze, e Faina Savenkova ci ricorda proprio questo.
Faina è uno scricciolino biondo di quasi undici anni di una cittadina vicino Lugansk, eppure questa piccola bambina dallo sguardo maturo, cui la guerra ha segnato più di metà della vita, ha una “voce” potente quanto quella dei cannoni che bombardano la sua patria. Attraverso la sua penna, raccontandoci per fiabe e racconti brevi la quotidianità della sua vita, ci ricorda una verità fondamentale che noi ad occidente pariamo aver dimenticato: che le parole dei giusti possono colpire e trascinare indipendentemente da quanta violenza e barbaro disinteresse i cartelli delle istituzioni esercitino su di loro. Faina sa chi è, ricorda e custodisce la sua storia e appartenenza con una innocenza che non è mai ingenua, perché non si può essere ingenui quando le notti sono scandite da attacchi aerei e bombardamenti di artiglieria, ma che porta in se il commovente ricordo del terribile sacrificio compiuto dai suoi antenati per difendere la propria patria, un ideale di autodeterminazione dei popoli che oggi i grandi attori geo-politici, gli stessi che di questo principio sulla carta si fanno unici custodi, calpestano impunemente in grandi giochi delle bandierine che stritolano senza pietà alcuna quanti vi vengono colti in mezzo. Eppure, noi viviamo nell’illusione, sapientemente creata ad arte, che questa guerra, che è anche geograficamente vicina a noi, sia così lontana da sembrare su un’altra galassia (tanto che molti non se ne ricordano proprio) e combattuta da grigi mercenari mossi unicamente dalla brama di guadagno e saccheggio. Sciogliersi passivamente in questa narrazione equivale a profanare la memoria di milioni pronti a sacrificarsi per la difesa di un’identità e di un ideale, e ancora di più, a sputare con disprezzo sulla vita di tutti quelli che vivono la guerra sulla loro pelle, compresi tutti quei bambini che, come la piccola Faina, cercano di vivere ogni giorno con il sorriso, nonostante tutto; perché, come per usare le sue parole: “quando un bambino ride, la guerra si ritira”.
Io non ci sto. Forse non potrò fare molto per fermare questo scempio, ma sicuramente non gli darò la soddisfazione di essere loro complice.