La quadratura del cerchio e una certa idea del fascismo


 

La quadratura del cerchio e una certa idea del fascismo

E’ da quando ha smesso di grugnire (anche se qualcuno non se ne dà per inteso) che l’uomo si pone delle domande senza essere capace di darsi delle risposte. La mente va infatti in sofferenza e alza bandiera bianca quando è chiamata a dirimere la contraddizione tra finito ed infinito, dal momento che non è possibile concepire di una qualsiasi entità materiale un frammento talmente piccolo che, dopo essere stato sezionato per l’ennesima volta in due parti uguali, sfumi da entrambe nel nulla, perché il nulla non esiste, e perché, inoltre, il concetto di ‘infinito’ che scaturisce, per il più elementare e il più falso dei procedimenti logici, dall’assenza del limite, va irrimediabilmente in crisi allorché si pensi ad un solo capello che galleggi sulle buie distese dell’universo.

Dall’epoca dei Babilonesi si tenta invano di risolvere il problema della quadratura del cerchio e di stabilire con precisione il valore della costante – il p greco – che si ricava dividendo la lunghezza della circonferenza con quella del suo diametro. I PC più sofisticati hanno calcolato finora in tremila miliardi di cifre la sequenza numerica che si sviluppa alla destra del 3,14, ma essa continua senza che si abbia la più pallida idea di dove vada a parare, e senza che se ne abbia un’altra sul perché si nasconda sotto la superficie di fenomeni apparentemente banali, come il moto delle onde, o certi modelli economici, o la postura elicoidale del DNA.

Qualcosa di analogo è riscontrabile nella lunga teoria di misteri, tutt’altro che gaudiosi, che attraversa come una lisca di pesce la storia del nostro Paese a far data dalla Liberazione, e che comincia con la strage di Portella della Ginestra, della quale non fu individuato un solo colpevole, benché ne fosse stata addossata la responsabilità ai ‘fascisti’, soggetti non diversamente definibili, ma collocati in una dimensione ‘altra’, imperscrutabile e oscura, come per l’appunto, una specie di ‘P Greco’, ma con l’unica differenza che la costante matematica scoperta dai Babilonesi e validata da Archimede è un valore reale mentre la parodia del ‘P Greco’ della quale sto adesso parlando è il risultato di una costruzione artificiosa il cui unico scopo è stato, ed è, quello di sopperire per questa via all’impossibilità di colpire nella direzione giusta, a meno che gli apparati dello Stato che hanno fallito, nei precorsi cinquanta anni, nell’interpretazione dei fatti criminosi attribuiti sommariamente ai ‘fascisti’, non avessero voluto, e non volessero ancora oggi, sostituirsi ai soliti noti sul banco degli imputati.

Occupa molto spazio negli inventari la documentazione di quanto sia stata pervicace e sistematica, attraverso la Magistratura e i Servizi di intelligence, l’attribuzione ai ‘fascisti’ delle opere pie commesse dal ‘Deep State’, quello che non si vede, che mandava i propri famigliari a prendere ordini dalla ‘Trilateral’ e ora li aspetta da Davos. Una teoria chilometrica, che si annuncia col botto di Piazza Fontana e con quel cratere nel pavimento della banca che costituisce la rappresentazione allegorica del buco nero, del noumeno kantiano dentro il quale, facendo da contorno ad un povero ballerino anarchico tormentato dalla zoppia, sono entrati ed usciti diversi esemplari di ‘fascista’, chi senza colpa alcuna dopo essere stato parcheggiato per qualche anno di galera (giusto per fare una cosa nuova)), chi perché è rimasto impigliato nel sillogismo secondo cui se si è ‘fascisti’ si è anche ‘malvagi’ per definizione, e quindi capaci, come Marco Affatigato, di essersi portato dietro la bomba che aveva provocato il disastro di Ustica o essere spuntato, qualche settimana più tardi – il più livido e il più sinistro degli ectoplasmi – tra le rovine fumanti della stazione di Bologna: una strage che, per l’evanescenza degli ‘argomenti’ addotti per corroborare tale scenario, è stata più avanti messa a carico di soggetti che non si sono affatto preoccupati di dichiararsi a loro modo ‘fascisti’, ma che continuano a sostenere, inascoltati, di averne fatte di tutti i colori, ma di non c’entrare assolutamente nulla in quella per la quale sono stati condannati all’ergastolo.

Tutto ciò, nonostante Ustica sia tributaria di un complicato intrigo internazionale sul quale è stato apposto, con un tonfo irrevocabile, il timbro a secco della ragion di Stato, e nonostante, inoltre, sia stato proprio un alto funzionario (Giuseppe Zamberletti, allora sottosegretario agli Esteri nel Governo Cossiga) di quello stesso ‘Sistema’ che si è specializzato, sin dal ’47, nel celare sotto il tappeto del ‘fascismo’ l’immondizia della Repubblica, a spiegare, in un libro, che l’ecatombe di Bologna del 2 agosto 1980 era stata commissionata, forse ad esponenti della cosiddetta Resistenza palestinese, o forse ad agenti propri, come ritorsione per la firma, avvenuta il giorno prima, a La Valletta, del trattato con cui l’Italia s’impegnava a fornire assistenza economica e militare a Malta, strappandola di fatto, anche per conto della NATO, all’influenza di Gheddafi e, per il suo tramite, a quello dell’Unione Sovietica che stava sbracciando per procurarsi una poltrona in prima fila nel Mediterraneo.

Senonché, questo libro, ‘La minaccia e la vendetta. Ustica e Bologna, un filo tra due stragi’, dopo un’effimera comparsa in libreria fu quasi subito ritirato dalla circolazione per affiorare, come una balena spiaggiata, tra le pubblicazioni di risulta che si vendono per pochi spiccioli sulle bancarelle: lì dove finiscono, confusi tra i romanzi stilisticamente improbabili e la raccolta delle ricette della Sora Lella, i testi più licenziosi, a cominciare da quelli scritti da Mario Spataro (giuro che per la citazione non mi è stato, e non mi sarà, pagato neppure un caffè), come ‘Rappresaglia’ e ‘Pinochet’, e da qualcuno dei miei, dei quali, per la circolazione pressoché impercettibile – un centesimo nel miliardo – e tenuto conto della qualità scadente dei tempi, meno vanto come potrebbe farlo, per le proprie medaglie, il più vecchio dei generali dell’Armata Rossa.

Messa da parte la premessa, trovo che sia necessario affrontare la questione di cosa renda così attuale il fascismo da utilizzarlo, in forza dei significati deteriori che gli sono stati iniettati, come patronimico e titolo per chiunque osi sollevare obiezioni sulla condivisibilità delle mode o sulla liceità morale dell’ordine costituito, sia egli il ‘negazionista’ del riscaldamento globale, o un no-vax, o uno che si rifiuta di sottoscrivere il teorema, concepito dagli eversori del buon senso comune e della famiglia, secondo cui non esistono solo il maschio e la femmina, ma c’è un genere per ogni cambio di stato (il caldo, il freddo, e tanti altri accidenti) nel corso della giornata.

Ciò che mi sembra degno di nota è il fatto che non si è mai dato del ‘franchista’, neppure in Spagna, a chi osteggi i sostenitori del ‘politicamente corretto’ (un’ideologia, per di più intessuta di pericolosi sofismi, a dimostrazione di quanto poco ci abbiano azzeccato gli esperti che ne avevano decretato l’estinzione nel secolo scorso) nonostante il caudillo puzzasse di candela vecchia alla distanza di un miglio e affidasse prevalentemente alla garrota il compito di tenere a bada le opposizioni. Né consta che si faccia, nelle schermaglie verbali, un uso generoso del termine ‘nazista’, benché il regime hitleriano si sia macchiato di crimini orrendi, come la Shoah. Né che per stoppare e demonizzare l’avversario lo si trafigga con l’accusa di essere un comunista, come Stalin, o come Pol Pot.

Ma il paradosso è solo apparente perché chiama in causa, anche a dispetto di una storiografia dozzinale, il contrasto, resosi manifesto nel secolo scorso, fra due forme di totalitarismo, quello ‘assoluto, dei bolscevichi e dei nazisti, che appare come ‘impedito’ nel corsetto di gesso che gli fu fatto indossare da una banda di psicopatici, e quello ‘relativo’ che fu una delle caratteristiche cruciali del regime mussoliniano, essendo stato temperato dalla complessità degli innesti che esso ricevette dalla cultura cattolica e dal socialismo democratico: da qui, allora, per logica conseguenza, anche il contrasto, in bianco e nero, come in certe serigrafie di Andy Warhol, tra la gestione del dissenso, quale avvenne nell’Unione Sovietica e nel Terzo Reich, e quella attuata dal Governo del ‘duce’, appena superata la soglia sotto la quale sarebbero sottentrate l’accondiscendenza e la resa. Si avverte, infine, la presenza di uno scalino insormontabile tra la cupa declinazione del concetto stesso di ‘lavoro’ sotto Hitler e Stalin, e quella che nell’epoca fascista si tradusse in una legislazione tra le più avanzate della Storia e del mondo, tanto da essere stata in parte recepita dalla Costituzione antifascista del ’48, senza ovviamente che ne siano state citate le fonti.

Tutto questo, fatti salvi gli errori che furono, a priori, l’emanazione delle leggi razziali, delle quali fu principalmente responsabile il patetico tentativo di accorciare surrettiziamente le distanze dall’isteria antiebraica dei Tedeschi, e, a posteriori, l’esserne stati alleati come si usa essere tra due soggetti, dei quali uno è destinato a fare la controfigura dell’altro.

Se, insomma, la Storia fosse capace di ruotare di 180 gradi e di riproporre, con altri costumi di scena e con altri suoni, il canovaccio del passato, l’osservatore neutrale rileverebbe che sta dilagando, travestita da democrazia – quindi, come spesso si è detto, una falsa democrazia – una dittatura feroce, che fa leva sull’indole divisiva dei ‘diritti civili’ e sul catastrofismo diffuso perché si atrofizzi nelle singole persone il senso della comunità e dello Stato: l’anticamera di un regime transnazionale in cui ci sarà una platea indistinta di sudditi, e a comandare, da dietro la facciata dei Governi-fantoccio, saranno solo i demiurghi della Finanza.

I ‘fascisti’ – un vasto campionario di gente comune – sono, allora come adesso, quelli che fanno attrito.

 

 

Immagine: https://contropiano.org/

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