Ci si sente come la Signora in Giallo di una famosa fabbrica di dolcetti, che nel rivolgersi ad Ambrogio, l’autista, gli confida, sporgendosi dal sedile di dietro, di avvertire un certo languorino: il vago sentore di qualcosa di incompiuto, di qualcosa che manca. E’ quel che si prova nell’azionare il fermo immagine sulla scena in cui dei poliziotti chiudono i manifestanti – delle donne col figlio piccolo al seguito e degli uomini dal viso incorniciato di vello bianco – in un crocicchio a Milano e li tengono lì per ore, per identificarli al termine di un corteo: un gesto che richiama alla mente la marchiatura dei bovini, fatti passare, ad uno ad uno, in una strettoia di lamiera o il raduno dei tonni nella camera della morte.
Qualche giorno prima, il buon Puzzer, che intorno a sé, seduto dietro un banchetto, a piazza del Popolo, aveva suscitato il tenero cinguettio di alcune sue ammiratrici (il trasferimento, involontario di certe mode televisive sul terreno della provocazione politica), fu fatto ritornare di corsa a Trieste col foglio di via obbligatorio e con l’ingiunzione di non mettere più piede a Roma per la durata di un anno: la miniatura del confino fascista, somministrato col contagocce, ma senza nessuna differenza, sotto il profilo morale, con l’analoga misura repressiva adottata durante il Ventennio a danno dei dissenzienti.
La vista della piazza più grande di Trieste, che si spalanca sul mare, parodiando la surreale composizione di un quadro di Dalì o di De Chirico, é rovinata da quella dei diaframmi di cemento e di ferro, simili a cavalli di Frisia, che la otturano da ogni lato per impedire che venga riempita dai detrattori del green pass, e le conferiscono un aspetto spettrale: come nelle cartoline di Berlino all’epoca dei vopos, e questo – va sottolineato – nonostante sia nota la disapprovazione da parte del mainstream del limen, delle barriere, delle porte chiuse, che oltraggiano l’anelito alla libertà, peculiare dell’uomo.
Il languorino della Signora in Giallo, per restare nella metafora, é quello dell’osservatore neutrale che coglie negli sviluppi attuali della Storia, specialmente italiana, un inedito sbilanciamento, del tutto simile a quello che salterebbe agli occhi sfogliando l’Iliade, in una versione da cui fosse stata scorporata la figura di Ettore per lasciare campo libero al pelide Achille, o a quello di un peso che fosse condannato a reggersi da solo senza l’aborrito conforto di un contrappeso.
Diciamolo papale papale. Cé troppa solitudine nella signora milanese – l’impiegata del catasto, l’inquilina del piano di sopra – che si é trovata sabato scorso circondata all’improvviso da un branco di questurini, quando per gli invasori che arrivano dal Nordafrica la Lamorgese – il primo ministro degli Interni, di un genere che si potrebbe definire suppergiù femminile – fa spreco di ‘dolci baci e languide carezze’. Ma ce n’é, a farci caso, anche in questo Governo che agita il fantasma dei black bloc per sedare le inquietudini della piazza: un po’ quel che ci succedeva da bamini quando, per farci stare buoni, fingevano di attaccarsi al telefono per chiamare il Lupo Cattivo.
Il regime fa e disfa, in solitudine: altrimenti non sarebbe un regime.
Dal canto loro, le Opposizioni, nel mettersi a capo delle proteste che divampano dappertutto, anche quando sono confinate sui social, non solo dimostrerebbero (prendi due, paghi uno) di non essere funzionali al travestimento e ai falsi pudori del Partito Unico o, addirittura di non esserne delle costole, ma renderebbero un servizio alla Democrazia, la quale ritroverebbe quanto meno una legittimazione formale: quella che ha già perso scaricando all’esterno del Parlamento il malcontento che é scaturito dalla nomina a capo del Governo di un proconsole dell’Alta Banca, e che si é saldato, per sovrammercato, con la rabbia di chi non ravvisa più nei partiti – divenuti focomelici dopo essersi affrancati dalla zavorra della gente e del ‘territorio’ – altro ruolo che quello di semplici esecutori di volontà espresse altrove, nei superattici del potere economico di Bruxelles, di Londra o di Washington: quel poco o quel tanto che servirebbe per spianare la strada ai tamburini e ai trombettieri del’eversione.
L’impressione é, appunto, che in quest’atmosfera sospesa tra il teatrino della politica e il ghigno della Gestapo, la Signora in Giallo avverta la necessità – quell’ineffabile languorino – che Ambrogio, con uno scatto imperioso della sua debole fantasia, le suggerisca come smarcarsi dalla morta gora della politica italiana da cui fuoriescono, a mò di zampillo, solo eventi nefasti, tributari di un inizio nefasto.
Si sa, é notorio, che le situazioni di stallo, sul grande palcoscenico della Storia, sono spesso interrotte da fatti impreventivabili, che rivelano, nel corso delle autopsie e al termine delle disamine a posteriori, ben poca attinenza con la logica aristotelica delle cose.
L’Europa del 1914, paralizzata dal gioco delle alleanze, ma percorsa sotto traccia da un’infinità di tremori, franò su se stessa a causa di due rivolverate esplose a Sarajevo da uno studentello ingrifato.
E’ facile, inoltre, che sotto la Bastiglia, quella mattina del 14 luglio, si trovassero a passare delle persone (uno andava a comprare delle uova, l’altro era reduce da una sveltina con l’amica) che avevano ben altre idee per la testa che quella di partecipare, come semplici comparse, alla prima puntata della Rivoluzione.
La Storia non é matematica. Non completamente e non sempre. Spesso assume delle traiettorie sbilenche. Non desta, quindi, alcuna meraviglia il fatto che la Signora in Giallo, stanca della mitezza del dissenso, che si é incarnato in Puzzer, rimanga fiduciosamente in attesa di qualcos’altro, di ‘quelcertononsoche’, che é intraducibile e arcano, ma non per lei e Ambrogio. E neppure per il canonico maresciallo incaricato di prendere appunti.
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