Di Roberto Pecchioli
Dopo anni di assenza, il vostro scrivano ha trascorso qualche ora nella città di Prato, culla della famiglia paterna. Abbiamo rivisto l’imponente scultura in marmo che caratterizza la piazza San Marco della città toscana, ricordando le battute, le prese in giro rivolte alla grande struttura, il cui nome è Forma squadrata con taglio, che la gente, con arguzia toscana, chiama “il Buco”. E un buco sembra, in effetti, realizzato dall’artista inglese Henry Moore. Si dice – parola di Wikipedia, il vangelo online- che i pratesi l’abbiano voluta ( è lì dal 1974) per simboleggiare, in contrasto con la vicina Firenze, l’identità cittadina, orientata alla modernità e al progresso.
Da allora purtroppo la vocazione tessile di Prato si è alquanto affievolita, ma il Buco è ancora al suo posto. Stando alle interpretazioni correnti, esso potrebbe rappresentare la vertebra di un gigantesco animale preistorico, forata al centro, o la porta di accesso alla modernità, in sostituzione dell’antica Porta San Marco, abbattuta un secolo fa per fare posto alla tranvia. Fatto sta che nessuno è in grado di decifrare il vero significato dell’opera, se ne ha uno.
Senza scomodare il David di Michelangelo di Firenze, detto il gigante nella città del giglio, il cui significato e incanto senza tempo sono chiarissimi a tutti, nella stessa Prato vi è un’altra scultura famosa, benché non solo per motivi artistici. E’ la statua di Francesco Datini, mercante del secolo XIV, considerato l’inventore della cambiale. Tiene in mano un cartiglio che secondo i concittadini è appunto una cambiale. L’opera, voluta dai maggiorenti della Prato di fine Ottocento, pionieri dell’industria laniera, mostra la vocazione innovativa della città, mercantile e produttiva. Insomma, si fa capire, a differenza del Buco del pur celebrato Moore .
L’episodio, al di là dell’ imperizia di chi scrive, è la prova dell’incomprensibilità di buona parte dell’arte contemporanea. La scultura ( o meglio le “installazioni” che spesso ne prendono il nome) e la pittura, compresi veri e propri scarabocchi su tela, sono le arti più colpite da questa sorta di esoterico mistero, per quanto non ne siano esenti la musica e perfino la letteratura. Ne è prova la lirica di un altro toscano, Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire (1910), scritta per prendersi gioco della letteratura paludata del suo tempo. “Tri, tri tri. Fru fru fru,uhi uhi uhi, ihu ihu, ihu. Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente. Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto. Cucù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche.”
L’arte, secondo Benedetto Croce, è intuizione lirica compiutamente espressa. Dunque, un linguaggio in grado di arrivare immediatamente al pubblico e di essere compreso. Non è così per gran parte di ciò che i sapienti oggi chiamano arte.
Talvolta, si oltrepassa l’idiozia e l’inganno ai danni del pubblico. Nel bellissimo Gli schiavi felici della libertà ( Passaggio al Bosco, 2023) lo spagnolo Javier Rùiz Portella racconta di un comico episodio a margine di un’importante mostra di arte contemporanea tenuta a Madrid. Una giornalista riuscì ad esporre in mezzo gli altri un “dipinto” imbrattato per gioco da bambini di tre anni. Tra i commenti da lei raccolti, uno percepiva “angoscia e tristezza”, un altro sottolineava “le molteplici sottigliezze e correnti” del quadro. Un terzo lo ha descritto come “un dipinto complesso, con molta meditazione dietro, l’opera di un pittore con molta esperienza”. I commentatori più profondi apportarono la loro dotta opinione: chi percepiva “la disperazione di cercare una nuova strada”, chi affermava che si trattava di “un’opera di un uomo di una certa età con una grandissima carica erotica repressa”.
Basta questa esperienza per dimostrare che l’arte astratta è molto spesso spazzatura utile solo a mostrare le altissime vette di idiozia a cui può ascendere l’Homo sapiens nonché quanto sia facile prendersi gioco di lui. Più egli si considera colto, più è facile. I cinefili ricorderanno una scena di Provaci ancora, Sam (1972) in cui Woody Allen intraprende una conversazione in un museo con una bellissima ragazza dinanzi a un quadro astratto. “ E’ un magnifico Jackson Pollock eh? – Sì. –Che cosa ti suggerisce? – Ratifica l’assoluta negatività dell’universo. L’odioso vuoto solitario dell’esistenza. Il niente. La tortura dell’uomo condannato a vivere in un’eternità deserta senza Dio come una minuscola fiamma che divampa in un vuoto immenso dove c’è solo spreco, orrore e degrado che forma un’inutile camicia di forza che imprigiona un cosmo assurdo. “
Nel 1910 lo scrittore Roland Dorgelès, nemico della nascente arte astratta , ebbe l’idea di legare un pennello alla coda di Lolo, un somarello, per vedere cosa poteva fare l’animale con una tela, stimolando la sua ispirazione con le carote, il tutto davanti a un notaio. Presentato il “dipinto”, Tramonto sull’Adriatico, firmato da un inesistente Boronali (anagramma di Aliboron, nome poetico dell’asino) insieme ad un “Manifesto dell’eccessivismo”, i critici scrissero pensosi articoli sull’opera del ciuchino, sulla sua filosofia trasgressiva , la tecnica raffinata, il suo messaggio nascosto, il suo brillante autore. Quando Dorgelès rivelò la burla, qualcuno ebbe il coraggio di mettere in dubbio la legittimità delle risate.
Il mondo artistico è una fonte inesauribile di saccenteria e sciocchezze. Le opere d’arte gettate nella spazzatura perché considerate tali dal malcapitato personale di servizio rallegrano di tanto in tanto i giornali. Un caso divertente è stato quello di Dove balliamo stasera?, una raccolta di bottiglie, carte e altri rifiuti installate dalle artiste d’avanguardia Sara Goldschmied ed Eleonora Chiari in un museo milanese, deposti nell’immondizia dall’addetta alle pulizie. Quando le artiste si lamentarono scandalizzate, Vittorio Sgarbi difese la lavoratrice affermando che “se aveva pensato che fosse spazzatura, ciò dimostrava che lo era. L’arte dovrebbe essere compresa da chiunque, comprese le donne delle pulizie. Il fatto che il museo possa raccogliere i pezzi dalla spazzatura e rimetterli insieme significa che non si tratta di arte di alto livello.”
Da segnalare l’opera Comedian di Maurizio Cattelan, una banana attaccata al muro con nastro adesivo. Un amante dell’”arte” pagò centoventimila dollari, comprensivi di un manuale di istruzioni per installare l’oggetto all’angolazione e all’altezza corrette: trentasette gradi, sessantotto pollici da terra. L’ artista David Datuna, durante una mostra alla Galérie Perrotin di Parigia, ha mangiato la banana davanti ai presenti stupefatti. Lungi dall’essere un iconoclasta ( o un disvelatore di inganni) , Datuna è un ammiratore di Cattelan e definisce il suo comportamento una “performance artistica” poiché “ciò che percepiamo come materialismo non è altro che un condizionamento sociale. Qualsiasi interazione significativa con un oggetto può diventare arte. Sono un artista affamato e ho fame di nuove interazioni. “ A ogni buon conto, la galleria Perrotin si è precipitata ad acquistare un’altra banana , chiarendo che il valore del pezzo non era il frutto, ma l’idea. Un gioco di prestigio degno di Frate Cipolla, il monaco disonesto del Decamerone che voleva presentare ai fedeli una finta reliquia, sostituita da certi buontemponi con alcuni tizzoni. Senza perdersi d’animo, il singolare religioso gridò al miracolo, affermando che si trattava dei resti di San Lorenzo, il martire carbonizzato.
Incredibile ( in tempi normali) il caso di Salvatore Garau, che è riuscito a vendere per diciottomila dollari una scultura invisibile. L’ acquirente di Io sono – così si chiama l’ opera virtuale- si è impegnato a ospitare la statua inesistente in una stanza ampia e priva di mobili. “Il buon risultato dell’asta attesta un fatto inconfutabile. Il vuoto non è altro che uno spazio pieno di energie. Anche se lo svuotiamo e non rimane nulla, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, il nulla ha peso.” Applausi al genio di Garau. Disse secoli fa il cardinal Carafa : il popolo vuole essere ingannato, quindi va ingannato.
Un gustoso aneddoto riguarda la musica , Richard Wagner e un suo ammiratore, il grande poeta Charles Baudelaire. I due artisti furono presentati da un amico comune, lo scrittore Jules Champfleury. Wagner apparve con un’elegante veste blu. Dopo aver suonato al pianoforte un brano affascinante, uscì dalla sala per rientrare con una vestaglia gialla. Si sedette di nuovo al pianoforte e, dopo un po’, uscì di nuovo per riapparire, stavolta con un abito verde. Baudelaire, impressionato tanto dal misticismo della musica quanto dal cambio di abbigliamento, si rivolse rispettosamente a Wagner: “ha suonato ogni pezzo con abiti di colore diverso. Lo ha fatto per sottolineare le distinte tonalità ?” Wagner rispose semplicemente che il primo abito era invernale e il secondo troppo pesante. “Quando suono, sudo molto”. Irresistibile.
Qualcosa di simile accadde a Ralph Vaughan Williams. Nel 1935 la sua Quarta Sinfonia dal tono cupo e violento venne interpretata come il riflesso della crescente tensione internazionale dovuta all’ascesa al potere di Hitler e Mussolini. L’ influente critico musicale Frank Howes la ribattezzò Sinfonia fascista nonostante il compositore avesse chiarito che si trattava di musica priva di qualsiasi riferimento politico. Allorché presentò la Sesta Sinfonia, nel 1948, all’inizio della Guerra Fredda, il “pianissimo” con cui si conclude la partitura fu interpretato come la descrizione della devastazione nucleare del mondo. La risposta del compositore fu: “a nessuno viene in mente che un uomo voglia semplicemente scrivere un pezzo musicale”.
Un altro caso – stavolta di strumentalizzazione politica- riguarda un cortometraggio spagnolo, La cabina, diretto da Antonio Mercero nel 1972, uno degli ultimi anni della dittatura di Francisco Franco. In un’intervista di parecchi anni dopo, il giornalista ricordò, ammiccando con aria scaltra, il sottile messaggio antifranchista contenuto nel film, che “denunciava, attraverso il simbolismo di un uomo intrappolato in una cabina telefonica, la condizione del cittadino indifeso di fronte all’oppressione della dittatura. “ La strategia fu così intelligente, sottolineò con un gesto di complicità, che la maldestra censura del regime non si accorse della critica, permettendo l’uscita del film. Mercero, spiazzando il suo interlocutore, rispose : “sì, è andata così. La maggior parte dei critici ha sottolineato questo aspetto politico, che mi ha sorpreso e continua a sorprendermi, dato che l’unica cosa che ho fatto è stato un film horror su un uomo che rimane intrappolato in una cabina telefonica.” Precisazione inutile : la pellicola continua ad essere considerata un esempio di brillante cinema antifranchista.
Al di là dell’aneddotica, resta il merito, ovvero l’incomprensibilità dell’ arte contemporanea e prima ancora la confusione sul concetto e la categoria di arte. Un segno evidente della sterilità della nostra epoca, incapace di produrre pensiero, ridotta a considerare arte ogni bizzarria, stranezza o novità. Un clero secolare di aiutanti di campo- critici, intellettuali, mercanti- si incarica di completare l’inganno manipolando il pubblico, soprattutto le classi abbienti semicolte, le più sollecite ad abboccare all’amo per vanità, narcisismo, adesione ai luoghi comuni del momento. Manca al tempo nostro- non solo nel campo dell’arte- il bambino della fiaba di Andersen, l’unico a gridare con schiettezza che il tronfio re, ingannato da un sarto imbroglione che gli aveva venduto a caro prezzo un abito invisibile, era nudo. Nudo come la verità fuggita dall’arte e dal discorso pubblico.