Le brutte abitudini

 

Le brutte abitudini

Pur senza rendercene conto, nei rapporti con l’altro sesso, i maschietti applicavano un teorema divenuto popolare solo da qualche anno a questa parte: quello che va sotto il nome di “finestra di Overton”, la gradualità con cui il soggetto che prende l’iniziativa costringe l’altro da sé ad accettare delle situazioni che avrebbe sicuramente ripudiato, come illegittime, insensate o impensabili, se gli fossero state propinate tutte in una volta. La semplificazione del concetto riguardava il corteggiamento d’antan, una prassi – finalizzata all’ottenimento del piacere – per la quale occorreva la complice “rassegnazione” del soggetto che riceveva le “avances”.

Il terreno della politica e delle relazioni sociali, che è quello interessato alle osservazioni di Overton (o di Chomsky, che vede e dice le stesse cose sintetizzandole nell’apologo della “rana bollita”), include, non diversamente da questo carezzevole quadretto da bagnoschiuma Paglieri, la variabile della rassegnazione, così poco consapevole e così attiva da diventare addirittura consenso: come quello degli automobilisti ordinatamente in fila lungo la strada tra Milano e Monza per sottoporsi a tampone, il prologo di mille altre file – uno dietro l’altro, uguali, come le cifre a destra della virgola, di un numero periodico semplice – per entrare in discoteca o allo stadio.

Il fatto che il virus minacci le nostre vite è incontestabile. La minaccia, però – rubo dal repertorio di un amico – sta anche nella domanda, inevitabilmente insoddisfatta, se a prenderci per i fondelli, declamando il Verbo, non sarebbe stato meglio un generale dalla mascella volitiva e dallo sguardo fiero piuttosto che questo Figliuolo che sembra uscito, sporco di inchiostro, dalle strisce di guerre pacioccone di Attalo, e se a rappresentare il nostro Paese nel mondo (è bello viaggiare gratis con tanta gente che ti si inchina davanti, eccellenza, eccellenza!) ci fosse un vero ministro degli Esteri, invece che  un giovane bibitaro di Pomigliano d’Arco, il quale continua, in ogni occasione, a fare la faccia di chi si è smarrito in una realtà scintillante ma aliena, come il carbonaro de “Il marchese del Grillo”.

Il problema, a stringere, non è che ci abbiano imposto due personaggi improbabili (due, di una moltitudine sterminata, a dimostrazione di quanto la politica si sia trasformata in teatrino di pupi, coi pupari che fanno degli strani armeggi da dietro), quanto, piuttosto, nell’esserci abituati, sotto ipnosi, a delle situazioni, che sono ridicole se prese isolatamente, ma debbono farci paura se le analizziamo insieme al contesto: un’operazione alla quale questa civiltà, a cui appartengo solo come detentore di un prestito d’acqua, si sottrae, ad esempio, rifuggendo dalle correlazioni. Ce n’è una, palmare, tra Bergoglio che sale sul pulpito per sentenziare che la proprietà privata non è un diritto, e i corifei del “capitalismo inclusivo”, a parere dei quale la felicità consiste nel non essere padroni di nulla. A seconda di dove spira il vento, e quindi, della direzione degli echi, un orecchio esercitato avverte la presenza di un direttore d’orchestra  che  decide di volta in volta quale voce e quale suono debbono stare più avanti : se le lagnose  omelie di un pontefice taroccato o l’aspro cinguettio della piccola Greta, una sinfonia infernale, al cui interno non esistono note stonate, e in cui – a leggere attentamente – trovano posto anche i due mesi impiegati dal magistrato per restituire la casa ad un vecchietto gettato sul lastrico da una banda di Rom.

Il messaggio è inequivocabile: è solo per poco che tu appartieni a te stesso, una  categoria ipotecata, all’atto, non solo dal rischio di essere strappati da piccoli  ai propri genitori per essere assegnati ad coppia di gay (vedi Bibbiano), ma anche quello di  sentirsi, da adulto, straniero in Patria, perché non può esserci Patria quando il tuo Paese non ha più confini, perché vi entrano tutti, da tutte le parti, alé ao’, e tu, intanto, prima di perdere la tua casa, ti sei già abituato all’idea di aver perso quella più grande, quella di tutti i tuoi connazionali, accidentalmente chiamata Italia. Perché, nel rimanere tre ore al telefono per prenotare una visita del SSN senza che ti risponda nessuno, hai la netta sensazione che quella parte di Stato che eroga le cure per i malati in realtà si è atrofizzata, e che c’è aria di smobilitazione, una credenza oggi, una sedia domani, signori si chiude. Perché mandi i tuoi figli a scuola, sapendo che è tutto tempo perso, che questa lunga trafila finirà con un pezzo di carta, inutile come il green pass. Perché non c’è lavoro, dicono a causa dell’automazione che riduce drasticamente la possibilità di trovare un impiego, ma tra tutto ciò che manca ci sono persino la disperazione del luddista che sfascia le macchine e la rabbia nel constatare che le macchine possono aver aggravato il problema, ma che “cosa fatta capo ha”, un capo che fa politica e che ci ha messo dentro anche l’immigrazione clandestina per declassare il poco lavoro che è rimasto in corvée. Perché tu, che prendevi le manganellate, sedotto dall’utopia, hai un figlio che ha visto la TV di Berlusconi e ne è stato irradiato. Siete di due razze diverse. Non una sottile linea rossa, ma un canyon. Questa è la più grande delle tragedie: chi vorrebbe reagire non può, circondato da una maggioranza che si è fatta traviare dalle abitudini e dai figli che non rispondono.

Mi sento nudo, con tutti i miei vestiti addosso. Ma forse oggi mi gira male.

 

Immagine: https://www.secondowelfare.it/

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