Le urne truccate di Salvatores – il voto tra leggenda e verità
E’ difficile in poche righe riassumere il diffuso senso di non partecipazione elettorale che pervade gli occidentali (soprattutto gli italiani di oggi) e la convinzione che il potere garantisca, con ogni mezzo, l’elezione di pedine gradite ad élite bancarie, finanziarie, internazionali. La storia che il voto venisse in una certa misura pilotato, truccato, è tanto vecchia.
Chi vi scrive ricorda d’averla sentita per la prima volta da un contrabbandiere di Fasano intorno al 1976: il tipo era adirato con un suo amico, e lamentava di non essere considerato per i “lavoretti statali” ma solo per cose di motoscafo, sigarette e fughe in auto. Secondo il soggetto (relativamente attendibile) alcuni funzionari del Ministero dell’Interno pare usassero come manovalanza, per sostituire le urne in alcuni “seggi utili”, contrabbandieri pugliesi e fidati uomini delle cosche calabresi. Il giochetto era noto a tanti omertosi della Prima Repubblica che, per correttezza, precisavano attuarsi in uno scarso trenta per cento dei seggi italiani, e solo per garantire una certa rappresentanza istituzionale gradita al potere. La faccenda si narra sia arrivata anche all’orecchio del regista Gabriele Salvatores che, da buon siciliano, avrà certamente ascoltato le vecchie litanie sul voto pilotato fin dalle prime elezioni, con l’aggiunta dell’adagio “i seggi, con relativa conta, sono un teatrino che devono fare per far vedere che c’è libertà, democrazia”. E qualcuno aggiunge “poi nella camera oscura del Ministero, di un fantomatico seggio centrale, dividono col bilancino secondo chi torna utile far eleggere”. “Secondo il peso economico o mafioso?” domanda ingenuamente l’uomo di strada; ed il potere ribatte “tu l’hai detto”, puntando indice accusatorio e sguardo torvo sullo sprovveduto cittadino (o suddito).
Secondo questa vulgata sparirebbero milioni di voti, ieri frullati e divisi tra Diccì e partiti vari, poi nella Seconda Repubblica venne il turno dei nuovi partiti di centro-destra e centro-sinistra, quindi i vari nuovisti urlatori del “vaffa” e compagnucci, oggi quello che c’è. Le vecchie leggende, ascoltate anche da Salvatores prima di lavorare al film Sud, narrano attraverso “radio fante” che più di settantacinque anni fa fossero direttamente gli americani a gestire il voto utile, e che poi appaltarono il giochetto a Diccì e discendenti. L’ufficio che probabilmente interferiva su queste cose era noto come “Affari Riservati”: al suo vertice c’era quel Federico Umberto D’Amato antesignano di ogni “patto” per conto dello Stato che, certamente, stava ben attento che certe notizie rimanessero al rango di leggenda metropolitana.
Ma Salvatores, approfittando della confusione del 1993, racconta nel suo “Sud” l’apertura dei seggi elettorali in un piccolo centro del Mezzogiorno d’Italia: è una calda domenica primaverile, e la tranquillità elettorale viene turbata dall’irruzione di tre cittadini italiani ed un eritreo; tutti disoccupati e intenzionati, armi alla mano, ad occupare la scuola che ospita le votazioni. Il caso vuole che nella sede del seggio vi sia anche la figlia di un onorevole (probabilmente della Diccì). Gli occupanti rinvengono nel seggio una scheda truccata, prova lampante dei brogli storicamente messi in atto. Nel film inizia una trattativa tra gli occupanti, intenzionati a resistere ad oltranza, e le forze dell’ordine che alla fine sgombereranno la scuola dai quattro.
In tanti ricordiamo la pellicola per la colonna sonora “Curre curre guagliò”, che riassume un po’ la vita di tanti di noi. Nella scena finale Salvatores lascia che la scheda truccata venga consegnata ai Carabinieri: ovviamente una mera licenza poetica, un sogno. Vulgata dice che in certe zone del Sud siano state sostituite intere urne: mitologia? Non ci è dato sapere tutto. Ma noi dobbiamo comunque e sempre votare, diversamente un vuoto astensionismo totale faciliterebbe coloro che desiderano la sempiterna “gestione tecnica” della società. Non possiamo fermarci dal lottare per scardinare il sistema.
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