Lo scandalo della maternità

 

Lo scandalo della maternità

Il cinque gennaio scorso sono andati in onda i Golden Globes, che insieme alla cerimonia degli Oscar, per qualità e spessore culturale, assomigliano più a un circo equestre con nani e soubrette che a una kermesse cinematografica: è Hollywood che celebra sé stessa, una moderna Versailles fatta di Nulla patinato mescolato a un po’ di tossica propaganda liberal-progressista.

Ed è stata proprio Michelle Williams, una delle ancelle della religione che celebra questo Niente cosmico, a usare la propria “vittoria” per pronunciare quello che i soliti giornalisti da riporto hanno definito “un potente discorso sui diritti delle donne e la libertà di scelta”.

Soprassedendo sul fatto che la Williams non sia neanche una brava attrice, come molte delle sue colleghe americane, concentriamoci meglio sul valore delle sue parole: «Sono grata per il riconoscimento avuto grazie alle scelte che ho fatto, ma sono anche grata per aver vissuto in un momento della nostra società in cui esiste la possibilità di scegliere [di abortire], perché come donne e come ragazze possono accadere cose al nostro corpo che non sempre sono una nostra scelta».

Punto primo: un feto non è un tumore, perché è questo che sembra essere leggendo queste parole, una brutta malattia che “non sempre è una nostra scelta”;mi spiace contraddirla, ma il sesso, signora Williams, è una scelta e lei ha consapevolmente scelto di andare a letto con qualcuno incurante delle conseguenze che questo poteva causare,  quindi smettiamola di raffigurare la gravidanza come un evento slegato da qualsiasi responsabilità personale, dato che siamo esseri umani, dotati di corteccia prefrontale, e non animali.

Secondo: ciò che appare terrificante è che in realtà non esiste una vera scelta; secondo la Williams (e tutta la corte dei miracoli femminista) avere un figlio in un momento “sbagliato” vuol dire distruggere qualsiasi sogno di realizzazione personale. Quindi, invece di battersi per una società migliore, capace di supportare la maternità nonostante il fato avverso, facendo “comunità”, celebriamo quella attuale, fatta di tante solitudini atomizzate in perenne lotta l’una contro l’altra, in cui “vince” chi è più competitivo, chi non ha “fardelli” incompatibili con il ritmo del capitale (figli, malattie, condizioni economiche svantaggiose). Sembra che gli unici diritti di cui si parla siano esclusivo appannaggio delle donne che rinunciano ai propri figli e non di quelle che, nonostante tutto, decidono di averli, le quali vengono il più delle volte trattate da Pària da un Occidente che fa dell’aborto e delle minigonne il suo orgoglio in contrapposizione al mondo medio-orientale, raffigurato come arretrato e illiberale, ma che per lo meno non reputa una statuetta più importante di un essere umano.

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